Ci avevano promesso che avremmo sentito un giovane Sting cantare insieme a un giovane Ed Sheeran, un giovane Boy George con un giovane Sam Smith, un giovane George Michael accanto a un giovane Harry Styles, il giovane Bono con un Bono più grande. Promessa mantenuta, beninteso. Ma la versione 2024 di Do They Know It’s Christmas?, la quarta della storia dopo quella originale del 1984 e le cover di 20 e 30 anni dopo, è anche la più fiacca di tutte. È tutto un po’ melenso, proprio laddove quella originale era una squisita operazione pop.
A raccogliere soldi utili a combattere la carestia che flagellava l’Etiopia c’erano i più importanti idoli teen dell’epoca. A partire da George Michael, che si autoscippò il Christmas Number One che sarebbe spettato di diritto alla Last Christmas dei suoi Wham!. C’erano i Duran Duran e gli Spandau Ballet ma anche un giovane campione del rock adulto come Bono, uno Sting ancora per poco “poliziotto” e un Paul Weller in cerca di identità. Quando partiva la batteria di Phil Collins si capiva subito che, nonostante il testo, ci sarebbe stato anche da divertirsi. E il video faceva il resto. Per la nuova versione, invece, l’idea messa in atto da Trevor Horn è stata quella di prendere parti delle tre canzoni precedenti e tirarne fuori una canzone sola. Con l’obiettivo, parole sue, di «rivitalizzarne il senso emotivo originale».
In realtà le tre canzoni non diventano una, ma sembrano diventare cinque o sei, nessuna delle quali buona come l’originale. E poi questi pezzi-Frankenstein non funzionano mai. Come eccezione viene in mente la Unforgettable che Natalie Cole ripropose in duetto virtuale con suo padre, il grande Nat King Cole. Ma siamo in territori ben diversi da quelli battuti dal pezzo di Bob Geldof e Midge Ure, che in questo caso sembrano aver alzato bandiera bianca: non c’è il tempo, la voglia, la possibilità di mettere insieme i campioni del 2024 per fare un pezzo nuovo, e allora facciamo un greatest hits e vediamo come va.
È tutto da buttare? Per fortuna no. L’idea di mettere di mettere quasi subito la voce di Michael Buerk, il giornalista della BBC autore del reportage che colpì Geldof e diede il via a tutto, è molto buona. Serve anche a evitare il rischio che un quindicenne di oggi dica: ok, ecco un’altra canzoncina da skippare. Invece è difficile ignorare uno che ti dice: «È la cosa più vicina all’inferno sulla Terra». Al termine della canzone si sente anche un Geldof d’annata che invita a comprare il disco. Insomma, l’operazione è contestualizzata bene, e sarà interessante vedere il video girato da Oliver Murray, che già aveva «giocato» con i Beatles di Now and Then, uscita giusto un anno fa. Coraggiosa anche la scelta di Horn di far pesare poco la versione originale rispetto alle altre due: tutte e tre le vecchie versioni contribuiscono pressoché in egual misura a quella nuova.
Prima ancora dell’uscita della canzone, le polemiche non sono mancate. Ha cominciato Ed Sheeran con una storia su Instagram. «Se ne avessi avuto l’opportunità», ha scritto, «avrei impedito di usare la mia voce». Sheeran ha citato Fuse ODG (il quale aveva detto che il ritratto dell’Africa che esce da iniziative come queste porta più danni che benefici) e ha spiegato che in questi dieci anni la sua comprensione della narrazione associata a queste iniziative è cambiata. Nel momento della sua partecipazione al progetto aveva 23 anni, oggi ne ha dieci di più. Non c’è niente di strano nell’aver cambiato idea, ma non è detto che si tratti solo di una questione di età. Bob Geldof, ovviamente, gli ha voluto rispondere. «È una piccola canzone pop ma ha permesso a milioni di persone di sopravvivere» ha detto in un’intervista rilasciata al Sunday Times. «Perché non dovremmo continuare a farlo? La fame nel mondo colpisce 600 milioni di persone, di cui la metà stanno in Africa. Possiamo aiutare alcuni di loro, ed è quello che continueremo a fare».
Quarant’anni dopo la prima uscita della canzone i meccanismi della discografia sono completamente cambiati, e non sarà possibile raccogliere la stessa grande quantità di denaro ma, ha detto Geldof, «posso garantire che quello che farete permetterà a un bambino di dormire più al caldo, dopo aver mangiato. Potete fare qualcosa, e potete farlo grazie a questa canzoncina».
Le polemiche su Do They Know It’s Christmas? erano iniziate già nel 1984, a partire dal verso cantato da Bono: “Stanotte grazie a Dio tocca a loro e non a te”. A proposito del testo, ci fu anche chi sottolineò che non è vero che in Africa non c’è la neve, che non cresce la vegetazione, che non ci sono pioggia e fiumi. Anche il titolo venne attaccato: in Etiopia c’è una delle più antiche comunità cristiane del mondo, e quindi ovviamente sanno che è Natale. Attenzione però, ha scritto Midge Ure nella sua autobiografia If I Was: l’importante erano i soldi che sarebbero arrivati, la canzone era secondaria, quasi irrilevante. Un’argomentazione non tanto diversa da quella opposta a chi gettò dubbi sul buon fine degli aiuti economici raccolti. Il solo Live Aid fruttò 40 milioni di sterline. Abbiamo fatto del nostro meglio per far arrivare tutto a destinazione, dissero Geldof e i suoi, e comunque ora milioni di persone sanno che il problema esiste.
Quel che è certo è che il primo Band Aid, assieme al “seguito” americano USA for Africa e soprattutto al Live Aid, rappresentò l’apice di un periodo breve ma intensissimo in cui le stelle del rock e del pop (ma anche del jazz, come vedremo) si misero assieme per parlare al proprio pubblico di argomenti importanti. I tour di Amnesty International con U2, Bruce Springsteen, Sting e Peter Gabriel, gli album di Greenpeace con Talking Heads, R.E.M. e Lou Reed e quello di Sun City, organizzato da Little Steven con gli onnipresenti Bono e Peter Gabriel ma anche Miles Davis e Herbie Hancock. E poi il Mandela Day allo stadio di Wembley e il concerto per i rifugiati del Kurdistan alla Wembley Arena e a Philadelphia, Amsterdam e Sydney, che raccolse 15 milioni di dollari. Per chiudere con l’ultimo grande evento di quel genere: il tributo a Freddie Mercury, che fu anche un grande megafono per richiamare l’attenzione sull’importanza della prevenzione nei confronti dell’Aids.
Diritti umani, ambiente, apartheid, emergenze umanitarie e sanitarie. Argomenti diversi tra loro alle cui cause si sono prestati artisti diversissmi tra loro. La forza di progetti come Band Aid era proprio questa: mettere insieme Bono e Simon LeBon, Paul Weller e George Michael, Sting e le Bananarama. Rock e pop, ma tutte superstar. La diversità degli argomenti in gioco creò anche qualche contraddizione: il fatto di avere suonato a Sun City, resort per bianchi nel Sudafrica razzista, non impedì ai Queen e a Elton John di esibirsi al Live Aid.
L’impegno da parte dei musicisti non è certo terminato con gli anni ’90, è però venuta meno l’unità di intenti, e ognuno è andato per conto proprio, spesso anche in maniera molto efficace. Con eccezioni come il Live 8 del 2005, che però viene ricordato più per aver ospitato l’ultima esibizione della formazione classica dei Pink Floyd che non per il segno lasciato nell’immaginario. Il video di We Are the World, gli stessi Queen al Live Aid o Phil Collins che suona a Wembley e poi prende il Concorde per suonare anche al Live Aid di Philadelphia (oggi probabilmente lo accuserebbero di aver contribuito all’inquinamento, altro che Greenpeace) appartengono invece a un immaginario al quale difficilmente la versione 2024 di Do They Know It’s Christmas? aggiungerà qualcosa. Nemmeno con le sue copie fisiche, disponibili da venerdì 29 con le copertine disegnate da Peter Blake, quello di Sgt. Pepper e di molte altre meraviglie.
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