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La COP29 “azera” le ambizioni. Un altro Baku nell’acqua nell’anno più caldo e con più catastrofi. «Noccioline» per il clima, rinvio dei tagli di CO2 e promesse da 1.300 miliardi di dollari di aiuti da trovare. Arrivederci alla COP30 in Amazzonia


Non c’è clima. E la Cop29, la seconda consecutiva in un petro-Stato dopo gli Emirati Arabi Uniti, ha chiuso con un nuovo sostanziale “arrivederci alla prossima”. È stata la tristissima chiusura di un altro decennio senza lotta ai cambiamenti climatici né policy globali e locali di adattamento mentre, paradossalmente, tutti i report di tutti i centri di ricerca presentati certificano l’aumento delle emissioni di gas serra e di eventi catastrofali mai visti con queste frequenze e intensità distruttive. Ma la scelta è stata ancora quella di decidere di non decidere e di lasciare ai posteri la decarbonizzazione, rinviando le scelte per un presente e un futuro meno pericoloso.

In Azerbaijan, terra di oil & gas, la verità che tutti sapevano è che anche questa conferenza Onu, prima di cominciare era già finita. Travolta dal ciclone Trump sul voto americano con il secondo tragico addio degli Usa all’Accordo di Parigi, dopo 13 giorni di fila di trattative i 51 mila delegati ripartono con un nuovo plateale disimpegno, un ritorno all’indietro che lascia sullo sfondo sia le vittime e i costi dei danni dei fenomeni atmosferici del terzo millennio sia la grande sfida industriale e tecnologica e della ricerca per fronteggiare il climate change. Al mercato di Baku, i negoziati tra paesi ricchi e “donatori” e paesi poveri e poverissimi sono stati tutti un “prendere o lasciare” sugli scarsissimi fondi proposti ai tempi supplementari. E questo alimenta un clima deludente, di frustrazione, rassegnazione e rabbia. 

Le peggiori previsioni della vigilia si sono avverate e, una volta aperto il vaso di Pandora trumpiano, quando alle 2,40 della notte l’azero Muxtar Babayev, presidente della conferenza in plenaria ha battuto il martelletto dichiarando conclusa la 29esima conferenza sul clima dell’Onu, l’atmosfera è stata quella dell’ennesimo flop, senza recupero al fotofinish di una risoluzione quantomeno condivisa, con obiettivi da raggiungere sempre più irraggiungibili. Le proteste del fronte dei paesi “fragili” avevano anche affossato le prime bozze con testi di risoluzioni con impegni sulla finanza climatica sotto i livelli di guardia che Amb Ali Mohamed, l’inviato speciale per il clima keniota, definiva «totalmente inaccettabile e inadeguato», Alpha Kaloga negoziava per l’African Group come «uno scherzo», il panamense Juan Carlos Monterrey Gómez come «un testo semplicemente ridicolo, con le briciole, è proprio come sputarci in faccia. Meglio nessun accordo che un cattivo accordo», mentre Jasper Inventor, capo delegazione di Greenpeace, definiva il testo «completamente dissociato dalla realtà degli impatti climatici, un oltraggio». E tutte le delegazioni dei paesi «in via di sviluppo» avevano minacciato l’abbandono della Conferenza. E così, per scongiurare il flop, sono ripartite convulse trattive nella notte tra venerdì e sabato alla ricerca del compromesso possibile ma al ribasso. Il nuovo accordo sulla finanza climatica prevedeva un impegno teorico da 1300 miliardi di dollari dei Paesi ricchi a sostegno dei paesi in via di sviluppo e «250 miliardi di dollari all’anno entro il 2035… da un’ampia varietà di fonti, pubbliche e private, bilaterali e multilaterali…», con l’invito rivolto anche ai Paesi in via di sviluppo «a fornire contributi aggiuntivi, anche attraverso la cooperazione integrando l’obiettivo».

I 1300 miliardi all’anno era la cifra proposta da economisti climatici come Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern, ma non sono obblighi, non si specifica chi e quanto deve versare e perdipiù sono indicati genericamente «tutti gli attori» –tre paroline mai comparse in atti ufficiali in una conferenza Onu – senza specificare i «donatori», se Stati, aziende oil & gas, banche, società quotate, fondazioni, benefattori privati… E 250 miliardi all’anno poi portati nella notte a 300 a fronte dei 500 richiesti dai paesi poveri e poverissimi come «cifra minima per poter far fronte all’emergenza climatica», sono considerati molto al di sotto delle necessità dal team dei tre grandi economisti che pure hanno argomentato con dati, cifre e grafici le necessità e l’urgenza degli investimenti per l’adattamento e la mitigazione nel primo giorno della Conferenza. Ma si è chiuso un accordo senza vincoli per gli Stati «donatori», senza indicare quali sono i soggetti privati «da mobilitare» e senza un cenno al fondo dei danni e delle perdite. 

Nel testo finale si legge che i paesi in via di sviluppo «possono» erogare aiuti, ma non hanno alcun obbligo, e i loro eventuali finanziamenti non rientrano nel conteggio dei 300 miliardi. Un dispositivo voluto dalla Cina che incredibilmente per l’Onu risulta ancora nell’elenco dei paesi «in via di sviluppo». Il documento congela e non aumenta gli impegni di decarbonizzazione decisi l’anno scorso alla Cop28 di Dubai, nonostante le richieste europee.  Il testo invita a raggiungere i 1300 miliardi all’anno di aiuti al 2035 fissando la «Roadmap da Baku a Belém», sede della prossima Cop30 in Brasile, per studiare come raggiungere l’obiettivo. Sono state approvate le norme per il mercato internazionale delle emissioni di carbonio, già previsto all’articolo 6 dell’Accordo di Parigi ma mai realizzato. Era il secondo dossier più strategico. Nel nuovo “mercato del carbonio”, gestito dall’agenzia dell’Onu per il clima, uno Stato può acquistare progetti di decarbonizzazione in altri Stati – ad esempio una riforestazione – e il risultato del taglio delle emissioni sarà contabilizzato come taglio di emissioni dello Stato investitore. 

Si riparte quindi da 300 miliardi l’anno come «contributo» dei Paesi ricchi, e la quota dell’Italia potrebbe essere tra 4,1 e 4,3 miliardi l’anno, come calcola “Italian Climate Network”. Il ministro Pichetto Fratin a Baku ha chiarito il meccanismo di calcolo della quota italiana come il totale della somma dei contributi pubblici e privati, portando come esempio il cavo dell’elettrodotto sottomarino Tunisia-Sicilia, finanziato in parte dalla Ue, in parte con fondi pubblici italiani e in parte da investitori privati: «Supponiamo che costi un miliardo e mezzo, questa cifra sarà rendicontabile come contributo dell’Italia alla finanza climatica. Quindi non solo soldi dello Stato. Ogni euro pubblico può mobilitare dai 2 ai 5 privati, e anche questi, purché compatibili con gli obiettivi della finanza climatica, andranno rendicontati come contributo italiano».

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Il variegato mondo dei 51 mila accreditati da 198 Paesi, tra rappresentanti di organismi nazionali e internazionali, climatologi e esperti da ogni angolo del pianeta, attivisti ecologisti e di organizzazioni green, sherpa e giornalisti climatici, lobbisti di ogni tipologia di tecnologie compresi i 1700 delegati promoter di carburanti fossili, ha atteso inutilmente l’arrivo dei principali leader del mondo. Ma i forfeit diplomatici hanno lasciato a casa Joe Biden e Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron e il canadese Justin Trudeau, l’indiano Modi e il cinese Xi Jinping. La platea avrebbe voluto applaudirli oppure, come da incredibili ordini perentori della sicurezza Onu in terra azera, potevano solo «mormorare» sommessamente il proprio dissenso «schioccando le dita» ed evitando cori di buuh, fischi o grida. Per la prima volta in una Conferenza Onu, sono state silenziate le proteste civilissime dei movimenti ecologisti, che in ogni caso si sono fatti sentire con sit-in e silenziosi cortei improvvisati. 

Orfana dei principali leader e di rilanci di obiettivi e impegni per abbassare la febbre del pianeta prima che sia troppo tardi, la Conferenza si è inabissata affondando le ambizioni sulla scia di un vento che soffia trasportando sempre nuove varianti negazioniste che non solo provano a nascondere o a ignorare la verità, ma puntano oggi al rinvio di ogni scelta, allo “stallo” delle soluzioni. La vitale questione “decarbonizzazione”, del resto, nelle agende dei governi e anche in gran parte delle opinioni pubbliche, è oggi ampiamente sovrastata dal clima bellico con la barbarie di conflitti armati – che peraltro sparano in atmosfera dosi di gas serra del tutto fuori controllo e no limits -, con troppi fronti aperti a partire dall’Ucraina e dal Medioriente. 

Ma sono stati molti i report scientifici presentati nelle sessioni di lavoro a Baku che segnalano un mappamondo di rischi climatici dove la transizione green per l’adattamento non parte o arretra e rallenta, come dimostrano le argomentate analisi dell’IPCC Onu e di ogni Climate Institute. La soglia critica dell’aumento di 1.5 °C di temperatura, definita nel 2015 come limite per l’umanità «invalicabile», è già stata toccata e tutti i report scientifici riportano gli ultimi 12 mesi con record di calore superati e stabilmente sopra quella soglia con circa 60 miliardi di tonnellate di gas serra prodotti. 

Peserà oggi e in futuro soprattutto l’uppercut assestato alla diplomazia climatica dal cambio scena trumpista alla Casa Bianca che imporrà politiche energetiche auto-centrate sugli idrocarburi definiti «regalo di Dio», brand coniato dal presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev, e le carte già pronte per la seconda uscita dall’Accordo di Parigi, cioè dagli impegni nella strategia di contrasto al riscaldamento globale, hanno ringalluzzito altri populisti di governo e la scelta è già stata seguita a ruota dal negazionista presidente dell’Argentina Milei. E queste sono promesse di nuove perforazioni per estrarre oro nero al suono del «drill, drill, drill», e nuove trapanature per succhiare gas al suono del «frack, frack, frack». Altro che rispettare gli impegni presi un anno fa a Dubai per la «transitioning away from fossil fuels». I Paesi produttori di combustibili fossili non mollano i loro business. A partire dalla Cina che oggi è il più grande continente inquinatore di gas serra a carbone anche se contemporaneamente è anche il più grande investitore in nuove tecnologie green dalle rinnovabili all’automotive. Contraddizioni in seno al popolo.

La verità amara è che a rischio scioglimento oggi è soprattutto la credibilità di questi vertici Onu senza scelte concrete e responsabili in grado di mobilitare risorse e la partecipazione dei cittadini alla grande sfida climatica. Si rimpiangono i tempi del braccio di ferro tra negoziatori pesi massimi come l’inviato Usa John Kerry e lo “zar del clima cinese” Xie Zhenhua che produssero accordi avanzati. Pesa lo scarso impegno negoziale soprattutto di Usa, Cina, Russia, mezza Europa, India e Giappone maggiori produttori di effetti da climate change. Ritardano le applicazioni dei dispositivi approvati dalla Cop28 negli Emirati Arabi per l’«uscita graduale» dalla carbonizzazione spinta, il phasing out, o anche per la «diminuzione graduale», il phasing  down, e per tecnologie come la carbon capture and storage. Come le azioni per «triplicare la potenza rinnovabile e raddoppiare l’efficienza energetica».

Le COP clima sono sempre più condizionate anche da presenze numeriche mai viste di portavoce, promoter e azioni di lobbing delle aziende dell’oil & gas. Non è un caso che i rappresentanti dalla Shell alla Total alla ExxonMobil fino all’ultima azienda fossile dei 198 Stati abbiano più accrediti dei delegati dei Paesi più vulnerabili. E in fondo lo stesso Azerbaijan che esporta l’80% dei suoi prelievi da fonti fossili deve oggi e nei prossimi anni aumentare la produzione per rispondere all’aumento costante di richieste dei paesi europei, con l’export programmato da 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno entro il 2027. Però, come cinesi e gli Emirati Arabi, puntano anche su quote di rinnovabili promettendo addirittura di generare il 40% del fabbisogno energetico nazionale entro il 2030. A quale società gli azeri hanno affidato il business green nei loro confini nazionali? Alla “Masdar”, la “Abu Dhabi Future Energy Company” seconda più grande azienda di rinnovabili al mondo, con mega investimenti in corso per 15 miliardi di dollari in 40 Paesi, gestore di impianti solari più grandi del pianeta, e per la cattura, stoccaggio e utilizzo del carbonio. Alla guida di “Masdar”, alla quale il governo azero ha ceduto terreni per 23 anni, c’è l’ex presidente della Cop28, il sultano Al Jaber, fondatore e CEO della società green ma contemporaneamente anche ministro dell’Industria e Tecnologia Avanzata e CEO della Compagnia Nazionale petrolifera degli Emirati Arabi, nonché inviato speciale per il clima. È il doppio business, bellezza! Direbbe Bogart. E non ci resta che sperare che il secondo diventi presto il primo. 

Arrivederci a Belém, nell’Amazzonia brasiliana per la Cop30.



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