Una chiusura annunciata quasi di sfuggita, a voce, e appena due mesi prima. È il regalo di Natale per i dipendenti e l’indotto dello stabilimento Eni-Versalis di Ragusa. Che solo il 24 ottobre hanno appreso della fine delle attività di produzione di polietilene – senza garanzie sul tipo di eventuale riconversione – prevista per il 31 dicembre di quest’anno. Un destino parzialmente condiviso dal sito di Priolo, nel Siracusano, per cui sono stati invece promessi investimenti e una trasformazione che mantenga i posti di lavoro. Passaggi che fanno parte della riorganizzazione strategica di tutte le grandi industrie, per adeguarsi agli obiettivi di decarbonizzazione fissati dall’Unione europea. Un traguardo da cui l’Italia è ancora molto lontana e ancora non troppo chiaro, anche in termini di costi sociali. Ma, «se una riconversione ambientale deve generare una crisi da scaricare su chi ha prestato un servizio, è artificiosa oppure vana», commentano da Cna Fita Sicilia, con il presidente Saro Tumino e i responsabili Daniela Taranto e Giorgio Stracquadanio. Che hanno richiesto l’intervento dei governi regionale e nazionale. «Dove non c’è lavoro, ci sono povertà e ignoranza. Noi, al contrario degli stabilimenti, non possiamo riconvertirci: una persona di 50 anni che ha guidato per 30 anni un camion, cos’altro può fare?».
I numeri della crisi dell’indotto di Ragusa
A parlare con un’unica voce sono i tre consorzi di autotrasportatori – composti da 135 padroncini, con più di cento dipendenti e oltre 200 mezzi – che formano l’indotto dello stabilimento di Ragusa. A cui si aggiungono «riparatori, distributori di carburante, assicurazioni e banche per milioni di euro e posti di lavoro», fanno i conti dalla Cina Fita Sicilia. Una «inquietudine», quella del sindacato, persino aumentata dopo le parole del direttore operativo Eni-Versalis Giuseppe Ricci, che ha parlato, per il sito di Ragusa, di «riconversione in un centro servizi e ricerca per Priolo, che riguarderà anche l’indotto, cercando di valorizzarlo». Un verbo, cercare, ritenuto troppo poco concreto. Anche perché la posizione di Eni-Versalis, in una lettera di risposta inviata ai consorzi, sembra chiara: l’azienda ha perso tre miliardi di euro negli ultimi cinque anni, ma rimane grande, con commesse in tutto il mondo. Il lavoro, insomma, non mancherà per nessuno. Compresi nei nuovi investimenti in Africa. «E noi saremmo anche pronti a metterci in gioco, ma con delle garanzie», commenta uno degli autotrasportatori.
La proposta di Eni-Versalis: altre spese per altre commesse
Un invito, quello ad allargare il proprio raggio d’azione, che l’azienda ricorda di aver fatto spesso ai lavoratori del Ragusano. Ma senza mai entrare nel merito dei piani di riorganizzazione e, men che meno, di scadenze. «Noi lavoriamo nei servizi e sappiamo di non poter avere il lavoro sotto casa – rispondono dai consorzi – Ma, finora, che senso avrebbe avuto per noi da Ragusa andare, ad esempio, a Marghera, in Veneto? Siamo su un’isola, con tutte le spese in più che ne conseguono tra traghetti e autostrade dissestate. Perché Eni non ci ha avvertiti di questi piani nel 2022, alla precedente scadenza del contratto? Avremmo avuto il tempo di strutturarci, organizzarci magari con un piazzale in centro Italia». Anche perché la storia di Eni-Versalis con il territorio di Ragusa è una storia fatta di rapporti di lavoro decennali. «C’è chi ha aziende di famiglia e ha ereditato la commessa dal padre – continua il lavoratore – lavorando con Eni da più di 50 anni e adeguandosi sempre alle richieste di ammodernamento dei mezzi e dei servizi». A spese proprie, chiaramente.
I costi della riconversione già sostenuti dai lavoratori
Gli standard Iso per la qualità e sostenibilità ambientale, le risorse per la sicurezza stradale, l’acquisto di nuovi mezzi a basse emissioni. Un grande cliente come Eni-Versalis, negli anni, ha sempre richiesto al settore dell’autotrasporto di restare al passo con i tempi. E anche qualcosa in più: come due mesi fa, quando l’azienda ha chiesto di compilare un questionario sull’impatto ambientale degli uffici delle ditte di autotrasporto. Le stesse con cui non avrebbe più lavorato quattro mesi dopo. «I camion Euro 6 a basse emissioni che abbiamo dovuto comprare per rispettare le specifiche della commessa costano circa 165mila euro, più una media di 40mila euro per il rimorchio – fanno i conti gli autotrasportatori – Abbiamo dovuto aprire dei finanziamenti a cinque anni con gli istituti di credito, con rate anche da tremila euro al mese. E alcuni di noi hanno solo Eni-Versalis come cliente: come pagheranno la rata?». C’è chi ha in più il mutuo della casa o chi affronta già la spesa mensile di un figlio all’università. E c’è chi ha già dovuto licenziare, in previsione della chiusura. «Ma noi non chiediamo pietà – concludono i consorzi – Chiediamo solo che ci venga garantito il tempo di pianificare una soluzione che tenga conto degli interessi di tutti. Compreso il territorio».
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