“I quattro uomini bruciati vivi sono il gioiello del Museo delle Vittorie, che dovrebbe essere aperto prossimamente nel quartiere governativo israeliano. Quattro gazawi che bruciano lentamente urlando perché non c’è un filo d’acqua, non c’è niente di niente con cui spegnere l’incendio appiccato alle tende di plastica da un bombardamento.
Naturalmente il salone d’onore è dedicato ai quarantaquattromila palestinesi di Gaza eliminati pazientemente dall’esercito israeliano nel corso di un anno. Alle pareti ci sono le loro foto, una per una. Due terzi sono di donne e minori. Qua e là si vedono sul muro dei quadratini vuoti bordati di nero: sono per le vittime senza nome ancora sepolte sotto le macerie.
Diecimila bambini uccisi sono una cifra ragguardevole. Messe una accanto all’altra le loro bare taglierebbero in due il centro di Milano. Roma è più grande: la colonna dei corpi potrebbe partire da Piazza del Popolo, arrivare all’Altare della Patria, spingersi fino al Colosseo, superare le Terme di Caracalla e perdersi lungo la strada che va all’Eur. Sarebbero ‘corpi d’inciampo’, un memoriale da scavalcare con prudenza.
Le regole di comportamento che l’esercito si è dato sono semplici e chiare: uccidere appartenenti ad Hamas, uccidere chi assomiglia ad un appartenente ad Hamas, uccidere chi è sospettato di appartenere ad Hamas, uccidere chi potrebbe essere appartenente ad Hamas, uccidere comunque e poi si vede. Nel museo i bambini, colpiti al cuore e al petto da colpi mirati, recano l’etichetta ‘danni collaterali’. Dell’esposizione fa parte anche la foto di un bambino di Gaza senza braccia, dal petto spuntano moncherini arrotondati. Sorride con l’invincibile volontà di vivere propria dei bambini. Sotto la foto si legge ‘Chi poteva immaginare?’. Il museo conserva con cura l’elenco di grandi e piccini, uomini e donne operati senza anestesia perché da Israele non giungono rifornimenti di medicinali, energia, carburante.
La Sala Architetture espone splendide fotografie di moschee, ospedali, scuole ridotte in macerie. Piccoli apparecchi televisivi riportano quanto viene proiettato con cura sui canali tv internazionali: un rettangolo grigiastro in cui non si vede assolutamente nulla, al cui centro spicca una crocetta nera accompagnato dalla scritta ‘Base di terroristi’. Istruttivo.
In un angolo si rende omaggio agli operatori sanitari, ai volontari, ai giornalisti che – assolutamente riconoscibili, lontani da zone di combattimento, a volte partiti con esplicito informazione o assenso delle autorità israeliane – sono stati mitragliati con cura e spediti nell’aldilà.
Lo spazio che raccoglie il maggior numero di spettatori è la Grande Hall delle Mandrie: su schermi giganti si vede il movimento disordinato, lento e inarrestabile di decine di migliaia di gazawi sospinti senza tregua da ordini superiori. ‘Andare a nord, andare a sud, andare a est, tornare a sud, concentrarsi nelle Zone Sicure, lasciare le Zone Sicure, dirigersi verso le Zone Rifugio’. Vedere sui maxischermi le masse muoversi come greggi impazzite è particolarmente affascinante, lo spettacolo è reso più sapido dal bombardamento senza preavviso delle zone rifugio e di sicurezza. Completa l’arredamento del salone una manciata di volantini destinati ad avvertire la popolazione di un’imminente caduta di bombe. Quando manca il preavviso, vuol dire che è colpa dell’imprudenza della gente.
Tabelloni alle pareti spiegano che il lavoro artistico a Gaza non può essere disturbato dalla stampa. Ecco perché i media internazionali non hanno accesso alla Striscia, e Al Jazeera ha la proibizione di operare in Israele e in Cisgiordania.
Un posto d’onore nel museo è riservato al camion che a metà ottobre ha portato rifornimenti a Gaza dopo settimane di frontiere ermeticamente chiuse. Un sollievo per una popolazione di due milioni e duecentomila, che prima della guerra assisteva all’ingresso di 700 camion al giorno.
Il tour si conclude con la Sala del Paradosso, dove sono in mostra squadre di coloni israeliani in Cisgiordania, spesso discendenti da antenati colpiti dai pogrom dell’Europa orientale, che da un anno si abbandonano a pogrom contro beduini e palestinesi: case incendiate, raccolti distrutti, bestiame massacrato, gente terrorizzata tra lo svolazzo di volantini su cui è scritto ‘Andatevene’. I morti sono già oltre cinquecento, di cui 170 minorenni. Un vero successo”.
La visione del museo è distopica. Un incubo. Però ogni elemento è drammaticamente vero. In questo quadro si leva la voce di papa Francesco, che tenacemente parla di pace per la Palestina e Israele. E’ il modo per far capire che il progetto di annessione della Cisgiordania e di Gaza, che rappresenta il vero motivo dell’azione del governo Netanyahu – anche con gli attacchi nel Libano – non può che portare a violenze senza fine. Da una parte e dall’altra.
Quando il papa chiede di “indagare” se gli eventi di Gaza possano essere definiti genocidio, suona un campanello d’allarme perché Israele si fermi. C’è una sola soluzione: la nascita dello stato di Palestina attraverso un patto di cooperazione e sicurezza con Israele. C’è una sola strada, indicata dall’abbraccio di Bergoglio con un padre palestinese e un padre israeliano, che si sono riconciliati. Come è successo il maggio scorso a Verona.
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