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Dalla Brigata Osoppo alle “zecche rosse”


Toghe rosse, zecche comuniste, sputi e insulti nelle sale dove si proietta La grande ambizione, il film dedicato a Enrico Berlinguer. A 78 anni dalla nascita della Repubblica italiana, nel 1946, e a 33 dalla svolta della Bolognina del 1991, quando il Partito comunista venne sciolto e sostituito dal Pds (Partito democratico della sinistra), l’Italia è ancora inquinata da un anticomunismo che da tragedia, come fu nella cosiddetta prima Repubblica, si è trasformato in farsa, senza tuttavia sottovalutare che il revisionismo storico si unisce alle insidie autoritarie nascoste dietro alle scelte politiche del governo Meloni.

La nascita dell’anticomunismo, diciamo così istituzionale, va fatta risalire al 1948, quando le elezioni furono vinte nettamente dalla Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi contro il Fronte popolare composto dai comunisti di Palmiro Togliatti e dai socialisti di Pietro Nenni. Un evento che mise fine all’unità nata durante la Resistenza – oltre che a una posizione, da parte del leader democristiano, ancora lontana dall’anticomunismo – concretizzatasi nei Cln (Comitati di liberazione nazionale) composti da tutte le forze antifasciste. Frattura divenuta inevitabile, visto lo strettissimo legame del Pci con l’Unione sovietica, in un contesto già caratterizzato dalla guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi contrapposti.

Ma in realtà l’anticomunismo cominciò a emergere già durante la Resistenza. A sottolineare questo aspetto, è lo storico Giacomo Pacini, autore di volumi quali Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana (Prospettiva Editori, 2008) e Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991 (Einaudi, 2014). Pacini fa risalire la nascita dell’anticomunismo organizzato a quanto avvenne all’interno della brigata partigiana Osoppo – che prese il nome della piccola località friulana, teatro nel 1848 di un’epica quanto tragica battaglia risorgimentale –, fondata a Udine, al cui interno erano presenti in maggioranza cattolici, azionisti, repubblicani e altre forze laiche. In un primo momento, la Osoppo collaborò con la Brigata Garibaldi, composta in prevalenza da comunisti e socialisti, salvo poi entrare in un aperto conflitto, che sfociò drammaticamente nell’eccidio, per mano comunista, di Porzus (7 e 15 febbraio 1945), strage che vide tra le vittime Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo.

L’elemento che mise fine al rapporto tra due spezzoni della Resistenza fu l’intesa tra i comunisti italiani e quelli titini, i quali, in quell’area geografica, non avevano mai nascosto le proprie mire annessionistiche, che gli stessi uomini di Togliatti non vedevano proprio con favore. Ma tant’è. Come sostiene Pacini, un’eccessiva dipendenza di Togliatti dalle formazioni slave – allora ancora legate all’Unione sovietica – fece capire agli osovari (così si chiamavano i membri della Osoppo) che il loro compito non si sarebbe esaurito con la fine del fascismo. “Diciamo – dice lo storico – che fu in quel momento che tra i combattenti della brigata cominciò a radicarsi la convinzione che la propria missione non si sarebbe esaurita con la sconfitta del fascismo e che, anche a guerra finita, si doveva restare armati contro un nuovo nemico: il comunismo”. Una scelta politica costruita a immagine e somiglianza di quella degli angloamericani, che non esitarono, come molti sostengono, a concepire la strage di Portella della Ginestra in Sicilia, il primo maggio del 1947, per frenare l’avanzata della sinistra nell’isola.

In questo contesto, gli osovari fecero una giravolta di 360 gradi, instaurando rapporti anche con il repubblichino Junio Valerio Borghese (poi capo, nel 1970, di un fallito colpo di Stato militare) e con i marò della X-Mas. Insomma, paradossalmente, fu proprio da una formazione partigiana che nacque Gladio, la Stay Behind italiana, organizzazione paramilitare che, in Italia, ebbe il fine di contrastare con tutti i mezzi una partecipazione dei comunisti al governo.

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Gladio, tra i cui fondatori ci fu l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, divenne uno strumento importante per instaurare, eventualmente, un regime autoritario in Italia, che avrebbe avuto l’obiettivo di mettere al bando il Pci, realizzando un quadro politico analogo a quello del fascismo. Gladio nacque nel 1956, quando il ministro della Difesa era Paolo Emilio Taviani, e divenne, con la complicità di pezzi importanti delle istituzioni, uno dei pilastri su cui si reggeva lo Stato italiano, anzi un “doppio Stato”: da un lato, quello legale, che faceva riferimento alla Costituzione scritta e promulgata grazie anche al supporto importante dei comunisti, che stavano tentando di dimostrare la propria affidabilità democratica; dall’altro, quello che aveva come interlocutore un sistema di alleanze internazionali tutto interno alla guerra fredda, al cui centro erano gli Stati Uniti, i cui interessi non potevano non ripercuotersi sul nostro Paese, da considerare a sovranità limitata, vista appunto la presenza di un Pci che, nonostante la sempre maggiore lontananza da Mosca, era escluso in linea di principio dal governo.

A rivelare l’esistenza di Gladio, il 24 ottobre 1990, fu Giulio Andreotti. Il perché di questo gesto andrebbe attribuito – sembra essere un parere condiviso – al tentativo di ottenere il consenso del Pci nella elezione alla presidenza della Repubblica, cosa che poi non avvenne. Durante i lunghi decenni di vita della prima Repubblica, l’anticomunismo fu un fiume carsico, che riemergeva a seconda degli scenari politici, fino – potremmo azzardare – alla sua scomparsa o quasi, da parte democristiana, con Moro, ma sostituito poi dall’anticomunismo di stampo craxiano (come tra l’altro dimostrarono i fischi che accolsero Berlinguer, il 4 maggio 1984, al congresso socialista). Il craxismo, con la persona del suo leader, pur successivamente travolto dal terremoto giudiziario di Tangentopoli del 1992, pose di fatto le basi di una ripresa vigorosa, quanto apparentemente incomprensibile, dell’anticomunismo più rozzo, unito a una riscrittura della storia, con il fine di equiparare il fascismo al comunismo.

A dare il via alla nuova quanto sciagurata fase della storia italiana chiamata seconda Repubblica, fu Silvio Berlusconi che, con il suo partito personale, Forza Italia, vinse nel 1994 le elezioni contro il Pds di Achille Occhetto, sdoganando sia la Lega Nord di Umberto Bossi sia i postfascisti di Gianfranco Fini. Nel suo programma politico, trovavarono posto elementi del “Piano di rinascita nazionale” di Licio Gelli, leader della loggia massonica eversiva P2, alla quale era iscritto anche Berlusconi, che, scomparso il pericolo comunista, aveva comunque il compito di minare alle fondamenta la democrazia italiana a favore di quello che si può definire un regime orbaniano ante litteram. Per poter cancellare ciò che ci fu di positivo nella prima Repubblica, bisognava offuscare l’immagine dei comunisti, i cui eredi peraltro fecero di tutto per assecondare quel progetto politico; mentre la destra – dopo il tentativo fallito di Fini di trasformare il vecchio Movimento sociale italiano in un partito liberale – non ha esitato, con Fratelli d’Italia, a riesumare il peggiore armamentario neofascista, coniugandolo con una riforma istituzionale di stampo autoritario, come quella del premierato cara alla presidente del Consiglio, progettata e scritta maldestramente, ma la cui pericolosità è al momento tutt’altro che sventata.

Dicevamo del revisionismo storico, che ha come paradigma l’equiparazione tra nazifascismo e comunismo. Numerosi sono stati i tentativi, da parte di esponenti politici della destra, di tradurre questo schema in proposte di legge repressive – per esempio con la messa al bando di simboli comunisti –, fino a quando, nel novembre 2019, un gruppo di senatori ha depositato un disegno di legge che contemplava il reato di apologia dei totalitarismi, compreso quello comunista. Un tentativo che fece seguito alla risoluzione del parlamento europeo – votata dal gruppo socialista, e dunque anche dal Pd –, del 19 settembre dello stesso anno, che, nello sforzo di trovare una memoria condivisa con i Paesi che avevano subito l’oppressione sovietica, misero sullo stesso piano le due ideologie, ignorando che il comunismo è stata un’esperienza politica molto complessa che, in Europa occidentale o in alcuni Paesi dell’America latina, ha contribuito a difendere la democrazia. In Italia, l’equiparazione si è tradotta in un gravissimo tentativo di controbilanciare i crimini perpetrati dal nazifascismo con quelli commessi dai comunisti. Com’è accaduto per le foibe, cavità carsiche all’interno delle quali i partigiani titini gettarono – durante e dopo la Seconda guerra mondiale – un numero imprecisato di italiani, tra i tremila e gli undicimila, anche a prescindere dalla loro compromissione o meno con il regime fascista. Una reazione cruenta ai crimini di quest’ultimo nei territori di quella che divenne la Jugoslavia. Il ricordo di quanto successo in quei luoghi portò all’istituzione del “giorno del ricordo”, celebrato il 10 febbraio, poco dopo il 27 gennaio, “giornata della memoria”, riferita alla Shoah. Il fine di questa operazione politica, contro la quale la sinistra non è stata in grado di contrapporre alcun ragionamento, è stato, ed è tuttora, l’equiparazione dell’eccidio delle foibe con quanto successo nei campi di sterminio nazisti.

Ma “appare davvero difficile da accettare – dice Angelo d’Orsi, già docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino – il paragone tra un fatto storico come la Shoah, che ha una sua unicità terribile nella vicenda dell’umanità, e una serie di eventi che, certamente tragici, rientrano tra le ‘normali’, per quanto variamente efferate, vicissitudini dei conflitti bellici. In secondo luogo – si interroga D’Orsi – questo proliferare di memorie obbligate e condivise non sta rendendo stucchevole ogni ricordo?”.

L’equiparazione, che di fatto appare anche come un’ammissione di colpa da parte della destra nei riguardi di quanto avvenuto nei campi di sterminio, la ritroviamo in ogni episodio di denuncia di quanto accade nelle segrete stanze popolate dai sodali della premier. Così, quando “Fanpage” riuscì a registrare le frasi razziste e antisemite dei giovani di Fratelli d’Italia, subito i dirigenti del partito si sono affrettati, sprezzanti del ridicolo, a chiedere conto al Pd e alla segretaria Elly Schlein di quanto sosterrebbero i giovani del suo partito. E la lista potrebbe continuare.

Siamo consapevoli che la questione comunista in Italia ha costituito un vero problema. “Per la cultura cosiddetta “progressista” – denuncia Massimo Teodori, americanista, ex deputato radicale – il vero democratico è antifascista, ma non può mai essere anche anticomunista, quindi antitotalitario”. Il punto da sottolineare, tuttavia, è che il Pci è stato una grande forza democratica. Se di questo divenne consapevole uno statista come Aldo Moro, non lo sono i protagonisti dell’ultimo trentennio, in cui fascisti e liberali di vario tipo si stanno prendendo una rivincita, senza trovare un’opposizione degna del nome.



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