Tribunale di Brescia, Sez. I, 19 novembre 2024 (ud. 8 ottobre 2024), n. 3178
Presidente estensore dott. Roberto Spanò
Segnaliamo ai lettori, con riferimento al processo che vede imputati i magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per il reato di cui all’art. 328 c.p., un estratto delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Brescia e il comunicato stampa diffuso dalla difesa degli imputati.
Sulla medesima vicenda processuale, su questa Rivista abbiamo già pubblicato il parere pro veritate reso alla difesa degli imputati dalla Prof.ssa Francesca Ruggieri (Ordinario di Diritto Processuale penale e Direttore del Dipartimento di diritto, economia e cultura presso l’Università degli Studi dell’Insubria) e dal Prof. Stefano Marcolini (Associato di Diritto Processuale penale presso l’Università degli Studi dell’Insubria).
In punto di diritto, il Tribunale osserva che “l’art. 358 c.p.p., nel prevedere in capo al PM il dovere di svolgere accertamenti anche su fatti e circostanze favorevoli alla persona sottoposta alle indagini, presuppone che il compendio conoscitivo, comunque acquisito, debba poi essere condiviso con la difesa in ogni fase processuale”.
Se è vero – si legge nella sentenza – “che il precetto in parola non è presidiato da alcuna sanzione processuale e che, una volta esercitata l’azione penale, il rappresentante della Pubblica Accusa acquista la veste di parte in senso tecnico (spinta dall’unico interesse di veder comprovata l’impostazione accusatoria anche quando si manifesti in comportamenti ispirati a conflittualità eccessiva), tuttavia una cosa è l’omettere indagini ritenute inconferenti rispetto alle proprie esigenze investigative, altro è l’oscurare prove, già raccolte, potenzialmente utili alle difese”.
Il principio “risulta espressamente richiamato dall’art. 13 del Codice Etico dell’ANM, secondo cui il PM si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo, indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non tace al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’indagato o dell’imputato”. Ne deriva che “la “parzialità” del P.M. non è destinata di per sé a confliggere con il corretto esercizio della giurisdizione, sempre che non venga violato il principio del contraddittorio omettendo di ostendere alle controparti le prove favorevoli”.
Ad avviso del Tribunale di Brescia, “nel caso in esame si è indubbiamente in presenza di un “rifiuto” rilevante sul piano penale, caratterizzato dal mancato compimento di atti rientranti in una delle categorie tipiche indicate dall’art. 328 c.p. (“per ragioni di giustizia’), non discrezionali, doverosi e indifferibili (“senza ritardo”). L’art. 430, comma II, c.p.p. prevede che il compendio probatorio acquisito dalla Pubblica Accusa successivamente al decreto che dispone il giudizio debba essere depositato “immediatamente” nella propria segreteria a disposizione delle parti. L’art. 328 c.p., dunque, con riferimento al contenuto degli artt. 358 c.p. e 430 c.p.p., ai principi costituzionali sul “giusto processo” e all’imparzialità dell’azione giudiziaria anche requirente, possiede indubbia natura precettiva”.
L’urgenza della produzione degli elementi acquisiti dal dott. Storari nel processo “Complotto” – prosegue il collegio – “andava valutata dagli imputati con riferimento alla necessità di versare “senza temporeggiamento” nel processo “Eni Nigeria” un patrimonio conoscitivo potenzialmente favorevole alle difese in tempi compatibili con la fase in cui si trovava il dibattimento, ormai prossimo alla conclusione”.
Secondo i giudici del Tribunale di Brescia, “i fatti di causa si sono rivelati di particolare gravità, poiché gli imputati hanno deliberatamente taciuto l’esistenza di risultanze investigative in palese ed oggettivo conflitto con i portati accusatori spesi in dibattimento (e nella requisitoria) a dispetto delle pressanti esortazioni ricevute da un soggetto “specificamente qualificato”, ossia un magistrato in servizio presso il medesimo Ufficio di Procura, preoccupato per il vulnus arrecato dalle condotte omissive al corretto sviluppo del processo “Eni Nigeria” (Questi fatti che sono molto gravi in quanto credo che non possiamo consentire che la decisione del Tribunale, qualunque questa sia, si fondi su calunnie, testi pagati o documenti falsi. E tralascio eventuali profili non solo disciplinari)”.
II fatto che la vicenda processuale de qua si sia conclusa con una pronuncia assolutoria nei confronti di tutti gli imputati – si legge nella decisione – “non possiede valore esimente, poiché il rifiuto di atti di ufficio di cui all’art. 328 c.p. ha natura di reato di pericolo e non di danno e, nel caso all’esame, si è comunque verificata una lesione del bene implicato, da individuarsi nel corretto andamento della funzione giudiziaria”.
Il Tribunale prosegue chiarendo che, “onde evitare di cadere in possibili equivoci, vada evidenziato che ciò che si contesta agli imputati non è l’uso improprio del potere discrezionale nella scelta degli elementi probatori da spendersi nel dibattimento “Eni Nigeria” – rispetto a cui hanno correttamente affermato la loro piena autonomia – quanto, piuttosto, di aver trascurato che il PM, a differenza di quanto avviene per le parti private che sono libere di perseguire le strategie processuali ritenute più convenienti a tutela dei propri assistiti, non può rivendicare a sé l’esclusività del giudizio sulla pertinenza e rilevanza della prova, arrogandosi una sfera illimitata di insindacabilità”.
In altri termini, la “piena autonomia riconosciuta al PM dall’art. 53 c.p.p. non può tradursi in una sconfinata libertà di autodeterminazione tale da rendere discrezionali anche le scelte obbligate”.
A dimostrazione del turbamento provocato dagli imputati sull’assetto del giusto processo con il proprio incedere “metodologico” autoreferenziale, nella sentenza viene richiamato anche “il disappunto esternato dalle difese e dallo stesso Tribunale a fronte della mancata tempestiva produzione della trascrizione del citato “Video Bigotti”, ritenuta inconferente dalla Pubblica Accusa che pure ne aveva la disponibilità sin dall’aprile 2017”.
Gli imputati – proseguono i giudici – “non si sono limitati ad eseguire una cernita di elementi probatori sulla base di una visione monocromatica – o “tunnellizzata”- del materiale a disposizione, ma hanno compiuto una selezione ragionata dei soli tasselli in grado di arricchire il mosaico accusatorio, con esclusione delle tessere dimostrative di segno contrario, apparendo singolare che la lodevole sensibilità e solerzia mostrata nel voler garantire il principio del contraddittorio mettendo a disposizione delle difese gli atti di segno accusatorio, non sia stata poi prestata, simmetricamente, per rendere conoscibili gli elementi che, a contrario, avrebbero potuto confutarli”.
In tal modo, “non solo il processo avrebbe potuto concludersi positivamente per gli imputati già all’udienza preliminare, ma si è altresì impedito al GUP – che ha condannato coimputati in sede di giudizio abbreviato – di apprezzare un elemento in grado di minare in radice la credibilità del teste-architrave dell’accusa”, il che porta alla conclusione che “la mancata conoscenza di tutti gli atti di indagine ha, pertanto, condizionato indebitamente l’intero iter del processo, influenzando le possibili strategie difensive anche rispetto alla scelta di moduli procedimentali alternativi al giudizio”.
Da ultimo, il Tribunale osserva che “il fatto che il dott. De Pasquale e il dott. Spadaio abbiano consapevolmente sottratto alla conoscenza delle controparti e del Tribunale straordinari elementi in favore degli imputati non significa che abbiamo inteso perseguire persone che sapevano innocenti. A favore dei Pubblici Ministeri milanesi andrà considerato che, pur a fronte dell’assoluzione “tombale” degli imputati in “Eni Nigeria”, può non esservi coincidenza tra verità processuale e verità storica e che, quantomeno in origine, potevano esservi elementi investigativi di natura documentale in grado di supportare l’intimo convincimento di segno opposto raggiunto dagli stessi”.
Pubblichiamo, di seguito, il comunicato stampa diffuso della difesa degli imputati:
Era semplicemente impossibile che la sentenza del Tribunale di Brescia potesse giustificare giuridicamente la condanna del dott. De Pasquale e del dott. Spadaro ed infatti non c’è riuscita, neppure in minima parte.
La motivazione ha fugacemente toccato soltanto alcuni temi, ma i punti cruciali sono rimasti del tutto senza risposta.
È assolutamente pacifico che i documenti, che, secondo la sentenza, i due Pubblici Ministeri avrebbero dovuto depositare, non erano mai stati in loro possesso: la condanna è stata comminata per non aver depositato documenti (chat e video Bigotti) che però erano nella disponibilità di altri magistrati e financo di alcune difese.
Questo, che era il fulcro di tutto il processo, è stato incredibilmente ignorato.
I due Pubblici Ministeri hanno fatto all’epoca una valutazione dei fatti in base a norme di diritto e informando immediatamente il Procuratore capo e un altro Aggiunto, in piena trasparenza. Hanno scritto che era una ricostruzione sbagliata e basata su errori di fatto e di diritto, che non c’era nessuna “prova” seriamente spendibile in nessun senso. Hanno sbagliato valutazione? Su questo la sentenza neanche risponde.
Confido che la Corte d’Appello annulli questa sentenza e ristabilisca la verità: il dott. De Pasquale e il dott. Spadaro devono essere assolti perché il fatto non sussiste.
Milano, 21 novembre 2024
Avv. Massimo Dinoia
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link