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Piano Mattei: la svolta tech per l’agricoltura africana


Le cronache degli ultimi anni ci hanno spesso mostrato che dietro agli investimenti miliardari delle grandi multinazionali nel continente africano si coprono ipotesi di sfruttamento delle risorse locali e di violazione dei diritti delle comunità locali, costrette ad abbandonare i territori nativi.

L’approccio italiano del Piano Mattei potrebbe essere invece un esempio di un modello diverso dove gli affari si fanno da entrambe le parti: ciò si baserebbe su una considerazione fattuale e non sulla mera dichiarazione d’intenti, non vi sarebbe infatti sproporzione tra le parti in gioco assicurando così davvero un approccio paritetico.

Lo scenario

In un continente a cavallo dell’Equatore, le condizioni dei terreni sono spesso molto diverse e difficilmente paragonabili. Lo stesso modello proprietario dei terreni è frequentemente assai vario e va dai latifondi di molte piantagioni, per lo più in mani straniere che privilegiano le produzioni da esportare rispetto ai fabbisogni locali, a modelli di piccola e media proprietà contadina come nei paesi dell’Africa orientale.

Le condizioni d’irrigazione, le infrastrutture di trasporto e immagazzinamento differiscono di sovente all’interno dello stesso stato, senza contare che in molti casi la viabilità è influenzata da fenomeni meteorologici e umani (quale il mancato rispetto dei limiti di peso per gli autocarri) interrompendo il flusso delle merci.

Da notarsi inoltre che il tema dell’immagazzinamento presenta diverse criticità che vanno dalle tecniche di conservazione (spesso i raccolti sono infestati da aflatossine a causa del mancato rispetto di regole quali il distacco dei raccolti dal suolo) e l’assenza di una vera e propria catena del freddo a causa anche della carenza di elettrificazione.

Un tema quindi da tenere ben presente è che spesso non mancano i raccolti ma gli strumenti per conservarli e trasportarli e che le carestie a volte sono causate più da guerre e guerriglie che da fenomeni siccitosi.

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Il flop della rivoluzione verde

Di fronte alle difficoltà dell’agricoltura africana, varie sono le iniziative di natura filantropica che cercano di risolvere i problemi aggredendo quel che è ritenuto il male alla radice, ovvero la mancata industrializzazione dell’agricoltura: e così si promuovono sistemi di meccanizzazione e fertilizzazione che vanno bene per le estese e fertili pianure americane ed europee ma con dubbi risultati nel Continente.

Senza considerare che sono in molti a dubitare sull’effettivo intento filantropico di tali iniziative (che alcuni ritengono sia soltanto volte a mantenere e accrescere l’industria agricola del Nord America e i relativi interessi), è un dato di fatto che la cosiddetta rivoluzione verde promossa dalla fondazione Bill e Melinda Gates, che ha catalizzato non pochi fondi anche di fonte pubblica, sia stata un fallimento, dove i filantropi possono al massimo fare la figura di Donna Prassede di manzoniana memoria.

Nonostante gli insuccessi però, anche nella precedente COP 28 di Dubai (tenutasi nel 2023), il miliardario americano fondatore del colosso Microsoft, sembra non volere desistere dal suo metodo per cambiare il mondo agricolo africano affermando la volontà di nuovi investimenti nell’Africa subsahariana e in Asia.

Piccolo è bello e inclusivo e la tecnologia può aiutare

Di fronte alla gigantesca macchina industriale che viene proposta dai filantropi occidentali, in Kenya le cronache di questi giorni riportano i successi che una piccola start up tecnologica (Savanna Circuit), che offre soluzioni innovative ai bisogni immediati degli agricoltori e dei pescatori, prestando servizi tramite una app.

Essi vanno dalla creazione di piccoli refrigeratori, alimentati con energia solare, da montare su motociclette per facilitare la conservazione del latte durante il trasporto (che spesso avviene per strade strette e impervie), così come quella del pescato. I servizi si estendono poi alla costituzione di microstrutture che possano fungere anche magazzini di prima raccolta.

Guardando oltre questa start up, la costituzione di microstrutture di conservazione e trasformazione si rende opportuna anche per rispondere alle regolamentazioni europee che chiedono la tracciabilità dei prodotti agricoli, al fine di dimostrare la conformità dei raccolti al rispetto dell’ambiente e dei diritti umani: sono molti infatti a ritenere che le strutture di trasformazione delle materie prime dovrebbero avere dimensioni tali da non consentire la confusione dei raccolti e dei semilavorati.

Geolocalizzazione e blockchain

Tra l’altro anche in questo l’Africa dimostra la propria capacità di sapere sfruttare le tecnologie digitali mediante l’utilizzo della geo-localizzazione e la produzione di certificazioni basate su blockchain in uso in Etiopia ma anche in Uganda (dove anche aziende italiane quali la MDL (Montagne della Luna) utilizzano sistemi di rilevazione e certificazione per rispondere ai requisiti sempre più stringenti previsti dalle normative europee coinvolgendo piccole comunità con effetti positivi anche in termini di contrasto alla povertà e di maggiore inclusione).

Non solo, l’utilizzo dei sistemi satellitari a portata anche dei piccoli produttori si sta diffondendo in vari stati fra i quali la Nigeria (dove gli agricoltori iniziano a usare sistemi satellitari quali EOS SAT-1 creato da un’azienda californiana per il monitoraggio dei terreni).

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Deve essere comunque osservato che, sebbene tali sistemi siano offerti a buon mercato, di fatto però essi per garantire precisione dovrebbero essere accompagnati dall’uso di droni, che difficilmente i piccoli agricoltori possono permettersi.

Perché il Piano Mattei può essere utile per l’agricoltura africana

A prescindere dall’approccio non predatorio, qualificazione che potrebbe essere vista in modo scettico dalle controparti che sanno ormai ben valutare i propri interessi, l’Italia vanta notevoli competenze in tema agricolo e una capacità d’innovazione che la pone tra le eccellenze nazionali: basti ricordare la capacità che hanno avuto i produttori vinicoli a elevare la qualità dei vini nazionali dopo gli scandali dell’etanolo e la grande corsa alla produzione quantitativa e non qualitativa quando si competeva con la Francia per essere i primi produttori al mondo.

Le stesse dimensioni delle aziende agricole italiane, che pur si stanno concentrando negli ultimi anni, ma non sono paragonabili ai grandi latifondi, pongono l’Italia in una posizione privilegiata di interlocuzione con i produttori similari dei vari stati africani (si pensi ad esempio ai produttori di caffè dell’Africa orientale, che spesso coincidono con aziende famigliari).

La stessa varietà del territorio italiano, le coltivazioni di carattere collinare e le difficoltà logistiche in varie zone, aprono ad una più ampia capacità di comprendere le criticità e trovare soluzioni.

Ne è un esempio anche l’agritech, dove aziende quali Ruralset di Modena cercano di trovare soluzioni tecnologiche proporzionate ai valori della produzione, perché chiaramente vi è diversa capacità di ammortizzare i costi se si monitorano produzioni ad alto valore aggiunto (si pensi al vino Barolo) oppure a basso valore quali i cereali.

L’ipotesi di partenariato tra Italia e paesi africani trovano quindi un proprio razionale che le distingue dal mero investimento produttivo.

In tal senso l’Italia si sta muovendo con accorsi presi con la Tunisia (valorizzazione di svariate migliaia ettari da parte di Bonifiche Ferraresi per la coltivazione dei cereali) e il Mozambico con la creazione del Centro Agroalimentare di Manica ed è auspicabile che ne intervengano altri.



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