Ho sempre diffidato dei rilevamenti di opinione. In fin dei conti, dipende tutto da come è posta la domanda. Se tu chiedi a qualcuno se si sente più ricco di dieci anni prima ti risponderà di sicuro di no. Se gli chiedi se il suo reddito è superiore a quello di dieci anni prima, nella metà dei casi almeno la risposta sarà sì. Così deve essere successo anche alla misurazione compiuta dall’Istat del Benessere Equo e Sostenibile, e pubblicata ieri sul nostro giornale da Paolo Grassi. Dai dati raccolti dai ricercatori risulta infatti che i cittadini più infelici tra gli abitanti delle grandi città italiane sono proprio i napoletani. Solo poco più di tre su dieci si dichiarano infatti «pienamente» soddisfatti della propria vita. Pensate che gli abitanti di Reggio Calabria, chissà perché, risultano invece essere gli italiani più contenti di come se la passano: addirittura il 54,7% gongola, contro il 33,8% dei napoletani. Ultimi dunque noi, e di molto dietro anche ai veneziani e ai milanesi, ai fiorentini e ai baresi, ai catanesi e ai messinesi.
Mah! Non discuto la serietà e qualità della ricerca, ovviamente. Ma mi pare che sia invece da discutere la sincerità delle risposte date dai napoletani al sondaggio. Ma insomma: possibile che la gioia di vivere, lo spirito di allegria, il luogo comune tante volte ripetuto di una città che sì ha tanti problemi, ma dove si apprezza di più la vita grazie alla cultura e all’ironia dei suoi abitanti, alla bellezza della natura, alle dolcezze del clima, basta e ci sta il sole basta che si sta il mare, siano tutte fandonie? Che in realtà due terzi dei partenopei si macerino nel risentimento anche mentre fanno la movida o mangiano una pizza? Francamente, non ci credo. È proprio perché non credo, e da sempre, all’immagine stereotipata di una presunta speciale qualità della vita donata solo a noi dal Creatore, altrettanto sono sicuro che le cose stiano un po’ meglio di come dice l’Istat.
Almeno meglio che a Reggio Calabria (mi scusino i reggini)! Perfino per quanto riguarda la disponibilità di parenti e amici la nostra città arranca nella statistica. Saremmo addirittura alla pari con Milano in quanto a familiari cui poter far ricorso in caso di bisogno, e ben dietro, anche qui, a quell’eldorado che sembra essere Reggio Calabria. Così come la rete di amicizie, altro decisivo fattore di benessere, sarebbe da noi più ristretta che altrove; e questa proprio non riesco a berla. Due sono le cose: o i napoletani, che hanno imparato sulla propria pelle e da lungo tempo a temere l’«invidia degli Dei», evitano di dichiararsi felici come in realtà sono per scaramanzia, per non attrarre le attenzioni vendicative del Fato, e allora le dichiarazioni rese all’Istat sarebbero un collettivo atto apotropaico di massa, una specie di gigantesco corno esibito contro la malasorte; oppure c’è stata in questi anni una rivoluzione antropologica nel popolo partenopeo di cui non ci siamo accorti, che ha fatto crollare la sua sconfinata gioia di vivere, la sua straordinaria capacità di godere. Tendo a privilegiare la prima ipotesi.
(Altrimenti, aggiungo, avremmo appena scelto come presidente dei sindaci italiani quello della città più disgraziata. E, a tutta evidenza, così non è).
La verità è che se una cosa analoga a quella che afferma l’Istat l’avesse scritta un giornale straniero, ora avremmo già la sollevazione degli intellettuali napoletani per l’offesa arrecata alla nostra gaudente città. Così come se un settentrionale avesse pronunciato il monologo di Greta Cool nel film Parthenope, («Siete poveri, vigliacchi, piagnucolosi, arretrati, rubate e recitate male»): sarebbe scoppiata una piccola rivoluzione partenopea. Ma se lo dicono i napoletani stessi, intervistati dai ricercatori dell’Istat, allora nessuno fa un plissé . E questa è l’ennesima prova che non siamo affatto infelici, ma bensì campioni mondiali nell’arte sopraffina del «chiagni e fotti».
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