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La guerra in Ucraina, in virtù della sua durata e dell’entità delle perdite subite dai belligeranti, segna il ritorno in Europa di conflitti che combinano la portata e la durata, la distruzione materiale e le perdite umane con, per uno dei due belligeranti, la posta in gioco della sopravvivenza nazionale. In un momento in cui la nazione ucraina sta combattendo per la sua stessa esistenza di fronte all’aggressione russa, la Francia sembra doppiamente al riparo da tale rischio.
Da un lato, grazie alla sua posizione di “isola strategica”, gode di una pace duratura e fraterna con l’intero continente europeo, che le conferisce una profondità strategica storicamente senza precedenti. Dall’altro, grazie al suo deterrente nucleare nazionale autonomo, che la protegge da qualsiasi annichilimento o ricatto nucleare. Allo stesso tempo, la Francia è profondamente coinvolta nella difesa dello spazio europeo, ove condivide valori e destini con i suoi vicini, partner e alleati. Ma in questo contesto, la deterrenza nazionale autonoma non è una panacea, ed il contesto del ritorno duraturo di una Russia aggressiva ed espansionista crea nuove situazioni di rischio che l’attuale modello non può sempre affrontare. Soprattutto a causa del possibile protrarsi delle crisi, ma anche a fronte di un ordine internazionale molto meno binario e più complesso sul piano economico rispetto a quello degli anni della Guerra Fredda.
Sebbene i leader francesi siano stati disposti ad ammettere nelle loro dichiarazioni, fin dagli anni ’70, che parte degli “interessi vitali” del Paese si trovano in Europa, va detto che la Francia non sarebbe in grado, nel formato attuale, di rendere europeo il suo deterrente in modo credibile ed efficace, al fine di porsi come protettore di ultima istanza dell’integrità dello spazio europeo. Soprattutto in un contesto che combina una lunga crisi del conflitto, una lenta escalation e dubbi sul coinvolgimento americano: tre ipotesi probabili nel breve-medio termine. La conseguenza è che bisogna ammettere che gli interessi della Francia in Europa non sono “così vitali” da poter offrire una garanzia di sicurezza solo con il suo attuale arsenale nucleare – uno scenario che la vedrebbe pronta a “rischiare Parigi per Vilnius”.
Bisogna quindi ammettere che esiste la possibilità di un conflitto convenzionale con la Russia, la cui escalation potrebbe e dovrebbe essere controllata, ma soprattutto affrontata a lungo termine da una forma di coalizione, ricorrendo a “diverse” forze nucleari per garantire una migliore sintonia con le forze convenzionali. Per il momento, si tratta di un punto di vista decisamente eretico, ma che deriva da un profondo cambiamento del contesto strategico.
Una deterrenza francese storicamente coerente
Le basi della deterrenza nucleare francese, dalla dottrina ai componenti e alle risorse, si basano in gran parte sul trauma del giugno 1940 e sono state costruite durante la Guerra Fredda come continuazione dello “spirito della resistenza” . L’obiettivo era – ed è tuttora – quello di evitare il ritorno ad una situazione che avrebbe minacciato la sopravvivenza stessa della Francia come nazione, senza dover dipendere dalla buona volontà di un alleato anglosassone o dover rivivere gli spaventosi sacrifici umani e materiali dei conflitti mondiali. Il potere delle armi nucleari rappresentava al tempo stesso la minaccia più totale e la soluzione più radicale alla questione centrale della difesa nazionale: la sopravvivenza della nazione . La sconfitta a Dien Bien Phu nel 1954 e la crisi di Suez nel 1956 confermarono, dal punto di vista di Parigi, la natura minimamente aleatoria dell’alleanza americana e la necessità di un’assoluta indipendenza dei mezzi per garantire la sopravvivenza nazionale .
Con lo sviluppo di un arsenale credibile, dotato di una varietà di componenti, di una capacità di un secondo colpo nucleare e di un volume sufficiente per infliggere “danni inaccettabili” a qualsiasi potenza, indipendentemente dalle sue dimensioni o dalla sua complessità strategica, la Francia ha acquisito una “polizza di assicurazione vita” autonoma. Ha protetto il suo territorio nazionale e la sua popolazione da una possibile e brutale eliminazione senza interruzioni dal 1964 (quando le FAS – Forze Aeree Strategiche o Forces aériennes stratégiques hanno lanciato per la prima volta un allarme) e in modo molto vigoroso dal 1972 (prima pattuglia di SNLE – sous-marin nucléaire lanceur d’engins o sottomarino lanciamissili balistici). In termini dottrinali, il ricco e complesso pensiero francese incarnato dai generali Ailleret, Beaufre, Gallois e Poirier ha posto le basi per una deterrenza nucleare autonoma, “a tutto campo”, rigorosamente difensiva – l’unica giustificazione per le armi atomiche nazionali; una deterrenza centrale nel modello militare francese, come sintetizzato per l’opinione pubblica nel primo Libro Bianco del 1972 .
Per la Francia, da oltre 50 anni, l’eventualità di un grande conflitto in Europa è sistematicamente legata ad un dialogo dissuasivo basato sull’arma nucleare nazionale. Di fronte alla necessità di evitare che l’arsenale nucleare fosse aggirato “dal basso”, di dimostrare la solidarietà della Francia con i suoi alleati e di poter giustificare, se necessario agli occhi del mondo, dell’opinione pubblica francese e dell’avversario, l’ascesa all’estremo nucleare, la Francia, a partire dagli anni ’70, aveva costruito il suo gruppo di battaglia in Germania attorno all’idea che il suo coinvolgimento avrebbe costretto “il nemico” (inevitabilmente sovietico, ma senza nominarlo) a “rivelare le sue intenzioni” . L’obiettivo era quello di affrontare tutti i possibili scenari di crisi, dall’opzione estrema di un attacco massiccio del Patto di Varsavia contro l’Europa occidentale alla possibilità di attacchi limitati ai confini della NATO (prendendo un impegno territoriale), o di un’operazione di aggiramento della lotta armata da parte dell’URSS che assomigliasse al “colpo di Praga” del 1968.
Il dispiegamento fuori dalla Francia del contingente francese di leva fu una dimostrazione tangibile della determinazione politica di Parigi e una possibile giustificazione per l’uso di armi nucleari “tattiche”, non nel senso di una battaglia da vincere, ma piuttosto come segnale che la Francia, avvertita, sarebbe stata pronta a tutte le opzioni, comprese le più estreme. Non si trattava mai di “vincere” militarmente contro il Patto di Varsavia, e nemmeno di “ resistere” durante il conflitto, ma piuttosto di ripristinare, in extremis, un dialogo politico sull’orlo dell’abisso, assumendo il fatto di contribuire, se necessario, all’escalation per non permettere che prendesse piede un conflitto distruttivo di logoramento, che avrebbe riportato alla memoria Verdun all’ombra di Hiroshima. Poiché lo scontro con la superpotenza sovietica non poteva portare ad una vittoria convenzionale ad un prezzo accettabile, solo il deterrente fornito da una promessa di reciproco annientamento poteva far indietreggiare Mosca.
Nel 2024, questo edificio nazionale – dottrinale e di capacità – che è la deterrenza rimane sorprendentemente coerente e, nel complesso, straordinariamente valido. Tuttavia, le condizioni politiche e militari a est del Reno sono cambiate radicalmente dal 1991, così come il modello di forza convenzionale e nucleare dell’esercito francese. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la deterrenza è diventata veramente “a tutto tondo” in un contesto in cui nessuna potenza ostile minacciava realmente la Francia e in cui la possibilità di un attacco con armi di distruzione di massa era ridotta al capriccio più o meno razionale del leader di un piccolo Stato “canaglia” o di un’organizzazione terroristica. Questo rasserenamento del contesto strategico, favorevole al disarmo e al controllo degli armamenti, ha contribuito a ridurre le dimensioni dell’arsenale nucleare francese a un livello strettamente sufficiente a mantenere una capacità permanente credibile e a fornire un’assicurazione sulla vita contro l’impensabile, mantenendo per il futuro un know-how e delle capacità (soprattutto umane) che potrebbero essere perse in un anno, ma che richiedono trent’anni per essere (ri)create.
Allo contempo, il successo del progetto europeo ha trasformato la Francia in un’“isola strategica”. Mentre il corpo di battaglia francese aveva un senso di fronte alla presenza di migliaia di carri armati del Patto di Varsavia a poche centinaia di chilometri dalle frontiere francesi, l’adesione alla NATO e all’Unione Europea degli ex vassalli di Mosca, la loro emancipazione democratica e la loro appartenenza ad uno spazio europeo unito con stretti legami economici e culturali, ha conferito alla Francia una notevole profondità strategica all’interno di un’area pacificata che non sembrava più minacciata dalla Russia. Questo sviluppo estremamente favorevole giustificava pienamente il “dividendo della pace”, la professionalizzazione delle forze francesi, la riduzione delle loro dimensioni, la loro trasformazione in spedizioni, l’abbandono dell’idea di un corpo di battaglia in Europa e, più in generale, della difesa territoriale. In questo senso, era anche giustificata la rinuncia alle forze nucleari tattiche che costituivano la “ passerella” tra l’impegno del corpo d’armata e l’ascesa alla soglia termonucleare. Tutto ciò era coerente e adattato al contesto, e non metteva in discussione l’equilibrio della deterrenza – fino al 2022.
La Francia potrebbe serenamente mantenere un arsenale per la propria difesa, professare regolarmente e pubblicamente la natura europea dei propri interessi vitali e dubitare, a volte, della sincerità dell’impegno americano in Europa. Questo però implicherebbe il non considerare quei possibili scenari che potrebbero vederla impegnarsi nella difesa dei suoi vicini d’Europa centrale ed orientale con la sua deterrenza nucleare (in caso di inadempimento americano) oppure investire in grandi capacità convenzionali per sostenerli in caso di necessità. La minaccia era oggettivamente bassa e l’alleato americano era sempre presente e apparentemente affidabile tanto da accontentarsi di una retorica teorica. Tuttavia, l’aggressione della Russia contro l’Ucraina dal 2014, che ha scelto di trasformare in un grande conflitto nel febbraio 2022, illustra le nuove forme che potrebbe assumere un’ offensiva russa contro alcuni degli alleati e partner europei della Francia. Un’aggressione che potrebbe minare un modello francese concepito per crisi “brevi, intense e vicine”.
Un modello pensato per “crisi brevi, intense e vicine”
Il presupposto centrale comune a tutti gli scenari della Guerra Fredda era che la crisi sarebbe stata di breve durata. L’idea che lo scontro con il Patto di Varsavia non sarebbe durato era assolutamente centrale. Si basava sulla preparazione di entrambe le parti, sull’entità delle loro risorse militari nucleari e convenzionali e sulla natura ideologica della loro opposizione. Per la Francia, la minaccia era molto vicina. Secondo i piani sovietici, il confine francese era a meno di dieci giorni dalla battaglia . In queste condizioni, in caso di aggressione a sorpresa accompagnata da attacchi nucleari tattici, qualsiasi mobilitazione nazionale era illusoria e il “rullo compressore” sovietico poteva essere rallentato solo con grande difficoltà. Insospettiti dalla credibilità dell’ipotesi di una rappresaglia nucleare americana, i francesi, dopo il loro ritiro dal comando integrato della NATO, avevano adattato la loro operazione in modo che l’intera forza armata francese fosse dispiegata in Germania e costituisse al tempo stesso l’unica unità di riserva dell’Alleanza e l’unico baluardo “convenzionale” del Paese, con l’obiettivo di manovrare non per sconfiggere, ma per mettere alla prova la determinazione del nemico .
Nel caso in cui questa forza fosse stata distrutta o maltrattata, a non più di qualche centinaio di chilometri da Parigi, la Francia si sarebbe trovata molto rapidamente in una situazione di minaccia esistenziale, se non di annientamento, almeno di invasione sullo sfondo di una battaglia nucleare tattica. In queste condizioni, aveva perfettamente senso incentrare la principale ipotesi di difesa nazionale sulla deterrenza termonucleare sull’orlo del baratro, e la sua autonomia ne rafforzava ulteriormente la credibilità, sia agli occhi degli alleati che degli avversari. Il resto della NATO, da parte sua, era preoccupato da due rischi contrastanti: da un lato, un’invasione su larga scala dell’Europa occidentale e, dall’altro, l’assunzione di impegni limitati, la “presa di Amburgo” o “Hamburg Grab” . Un’ipotesi del genere avrebbe potuto vedere l’URSS accaparrarsi “fette di salame” o “foglie di carciofo”, a seconda dei teorici, sotto forma di promesse territoriali limitate da un attacco a sorpresa, prima di insabbiarsi e chiedere negoziati, costringendo la NATO a “fare la figura dell’aggressore in escalation” se avesse minacciato ritorsioni o cercato di contrattaccare (un modello che Vladimir Putin utilizza nella sua forma aggiornata di santuarizzazione aggressiva ).
Mentre il rischio di un’invasione su larga scala favoriva un sistema distribuito in profondità, il rischio di prendere un numero limitato di impegni, combinato con le preoccupazioni della Germania occidentale di essere nient’altro che un campo di battaglia sacrificale, sosteneva una difesa in prima linea, con tutte le forze militari posizionate permanentemente il più vicino possibile al confine, lasciando solo le forze francesi (che rifiutavano la battaglia in prima linea) come ultime riserve . Sia gli americani che i sovietici, non volendo impegnarsi in uno scambio nucleare tattico che avrebbe potuto portare a un’escalation incontrollabile, cercarono per tutta la durata della Guerra Fredda di trovare il modo di ritardare il più possibile la soglia nucleare, o addirittura di vincere, almeno nella battaglia d’Europa, con i soli mezzi convenzionali.
La posizione delle armi nucleari all’interno del quadro strategico delle forze in gioco ha subito un’evoluzione importante nel corso degli anni: da una posizione centrale di utilizzo iniziale negli anni Cinquanta, nell’era della “rappresaglia massiccia”, si sono ritratte nella mente dei potenziali belligeranti fino a diventare, alla fine degli anni Ottanta, solo una forma di garanzia contro un’eventuale sconfitta in campo aperto di una delle due alleanze militari . Ciò che la NATO e la Francia avevano in comune era l’ipotesi di una crisi breve. All’epoca era impensabile che un conflitto in Europa potesse durare più di qualche settimana. La decisione doveva essere presa con forze preposizionate e con il rapido afflusso di forze di secondo livello (dall’URSS o dal Nord America), senza la necessità di una mobilitazione pluriennale. Sia per contrastare un attacco che minacciava direttamente i suoi confini, sia per sostenere i suoi alleati, la deterrenza francese rimaneva la chiave di volta della strategia della Francia in caso di conflitto, in grado di neutralizzare rapidamente qualsiasi aggressione sovietica, spingendosi agli estremi che sembravano inevitabili se l’avversario sembrava volersi impegnare risolutamente, al di là di un impegno territoriale. Insomma, una crisi “breve, intensa e vicina”.
Difesa dell’Europa dopo il 2025: crisi “lunghe, lontane, in lenta escalation”
L’aggressione russa all’Ucraina fa parte di una strategia pluriennale di aggiramento della lotta armata , che è fallita e, nonostante i desideri degli strateghi russi, si è trasformata in un conflitto aperto e prolungato. Purtroppo, è senza dubbio il modello per futuri conflitti di aggressione che la Russia potrebbe intraprendere contro l’Europa. Inizialmente perseguendo una strategia di destabilizzazione attraverso una combinazione di influenza, propaganda e azioni clandestine mirate (sabotaggi, omicidi, attacchi informatici), la Russia “plasma” il suo obiettivo, nascondendosi dietro dichiarazioni ufficiali ambigue. L’obiettivo è isolare l’avversario e seminare dubbi tra i suoi potenziali sostenitori e l’opinione pubblica, creando al tempo stesso elementi di sostegno per sé. Lo stesso schema è emerso ieri in Georgia e Ucraina e potrebbe essere visto domani in Moldavia, Finlandia o negli Stati baltici.
Seguendo uno schema consolidato, la Russia sfrutterebbe poi le opportunità offerte dalle crisi che si presentano di volta in volta (economiche, migratorie, tensioni sociali ed etniche, persino crisi climatiche) per aumentare la pressione dei suoi attacchi ibridi, avviando al contempo operazioni armate sotto falsa bandiera (milizie, mercenari, “omini verdi”), in particolare per “proteggere” le cosiddette minoranze russe (o almeno russofone). Di fronte a Stati che hanno esplicite garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti, la Russia cercherà di farli apparire come gli aggressori, cercherà una possibile conciliazione da parte di un’amministrazione americana isolazionista o impegnata in Asia o in Medio Oriente, oppure farà temporaneamente marcia indietro sponsorizzando accordi di cessate il fuoco, professando il proprio desiderio di pace e accumulando richieste più ampie che non hanno un legame diretto con la crisi. Se la crisi scoppia in uno spazio “intermedio” come la Bielorussia (attraverso una rivolta) o la Moldavia, il coinvolgimento russo potrebbe essere più diretto, soprattutto se le forze sono state rinvigorite dopo una pausa o un arresto del conflitto con l’Ucraina. Naturalmente, per tutta la durata della crisi, la Russia userebbe la minaccia nucleare per influenzare l’opinione pubblica (e in primo luogo la propria), ma senza dare alcun segnale strategico particolare alle tre potenze nucleari occidentali, per non dare agli specialisti l’impressione di uscire dalla “grammatica nucleare”. L’obiettivo è mantenere una forma di “santuario strategico aggressivo” attraverso le parole, all’ombra del quale la Russia ha carta bianca sul fronte convenzionale, contando sul fatto che la paura delle armi nucleari nelle democrazie occidentali tende, nell’era dei social network, a trasformare la deterrenza in una teologia dell’inazione da parte dei decisori politici.
Con il protrarsi della crisi, essa potrebbe sfociare in un scontro aperto tra le forze di un Paese dell’Unione Europea e le unità dell’esercito russo, con o senza l’intervento americano, che potrebbe durare mesi tra una plausibile smentita russa, il blocco turco o ungherese della NATO, le polemiche sui social network e la procrastinazione di Bruxelles. Nel corso di questa crisi, in nessun momento sarebbe opportuno per la Francia di sostenere che l’integrità del Paese o dei Paesi minacciati costituisce un “interesse vitale” per Parigi. Né l’opinione pubblica, né gli altri alleati, né la Russia considererebbero credibile una minaccia nucleare da parte di Parigi, che attirerebbe anche molte critiche da parte di una comunità internazionale “al di fuori della zona OCSE”, piuttosto sensibile alla questione della moderazione nell’uso, anche se retorico, delle armi nucleari.
Con il protrarsi della crisi, nel caso in cui l’integrità territoriale di uno Stato membro dell’Alleanza fosse minacciata, si porrebbe la questione di un’azione di terra a suo favore. Se ciò avvenisse “con la NATO” e con la giustificazione dell’articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord, sarebbe il caso più favorevole e quello che la Russia vorrebbe evitare: con il sostegno delle forze americane e delle loro capacità chiave (spazio, cyber, C3, deterrenza, guerra elettronica), una vittoria convenzionale difensiva sarebbe senza dubbio possibile. Tuttavia, per fare la sua parte e onorare i suoi impegni, la Francia dovrebbe essere in grado di schierare un’unità militare, con tutti i suoi elementi di supporto, per molti mesi. Lo scenario sarebbe allora quello di una crisi che, pur non essendo imminente, sarebbe comunque “breve e netta”, un conflitto in cui il rischio di un’escalation estrema – per quanto non si possa mai escludere del tutto – potrebbe comunque essere contenuto. In questo scenario, i leader russi dovrebbero capire rapidamente il bisogno di ritarsi per evitare il rischio di non poter nascondere all’opinione pubblica la propria sconfitta di fronte al potenziale dell’Alleanza, di gran lunga superiore al loro. Ma questo scenario di “NATO unita” non è (ahimè) più l’unico da considerare. È perfettamente possibile, vista l’evoluzione della politica americana, che i timori francesi espressi da oltre 70 anni siano finalmente giustificati, ponendo Parigi in una situazione di “vittoria morale”, ma anche con le spalle al muro. Dopo essersi schierata a favore di una difesa europea più autonoma in caso di default americano, la Francia dovrà ora assumersi le proprie responsabilità.
L’ipotesi che l’Europa si assuma la responsabilità esclusiva di tentare di contrastare l’aggressione russa contro parte del suo territorio nel contesto di una crisi ibrida prolungata è un vero grattacapo. A parte l’aspetto diplomatico, che consisterebbe nel creare e soprattutto mantenere nel tempo una coalizione di volenterosi fortemente dipendente dallo stato sempre mutevole delle forze politiche europee, sarebbe soprattutto necessario sul piano militare farsi carico di una battaglia potenzialmente di lunga durata, soprattutto se la Russia, visto il fallimento (ancora una volta) della sua elusione della lotta armata, decidesse di assumere una più trasparente postura offensiva dopo essersi assicurata un nihil obstatamericano. Da un impegno iniziale di pochi battaglioni, la Francia si troverebbe con una brigata dopo qualche settimana, poi una divisione dopo qualche mese, all’interno di una coalizione eterogenea che potrebbe riunire britannici, belgi, baltici, polacchi, cechi, scandinavi, canadesi… Ma sicuramente senza la Germania, al mento in maniera diretta, o la maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale.
Le prime bare di militari francesi che attraversano il ponte dell’Alma a Parigi susciterebbero un’intensa emozione, ma non si parviene alla soglia nucleare per 10 morti. E per 100, o per 1.000? Mille morti militari – professionisti e non – per la Francia sarebbero immensi, ma molto pochi rispetto alla storia o a quelli ipotizzati durante la Guerra Fredda, soprattutto se questa cifra viene raggiunta dopo sei mesi o un anno di impegno puramente convenzionale il quale, dopo qualche mese, non occuperebbe più il centro della scena di un panorama mediatico volatile. A parte il fatto che, alla fine di quell’anno, l’esercito francese faticherebbe a rigenerare una forza che avrebbe perso circa 4.000 uomini (con un rapporto di tre feriti per un morto) e centinaia di veicoli, la sua deterrenza avrebbe poco peso nel conflitto: si proteggerebbe da qualsiasi minaccia nucleare al nostro territorio nazionale, e probabilmente si proteggerebbe anche da massicci attacchi convenzionali sulla Francia metropolitana, ma avrebbe poca credibilità nel costringere Mosca… A fare cosa, comunque? A “rivelare le sue intenzioni”?
Nessun Presidente francese sarebbe credibile nell’annunciare ai suoi avversari, ai suoi alleati o al mondo intero che considera la sopravvivenza dell’integrità del territorio estone una questione di interesse vitale che giustifica un “ultimo avvertimento” sotto forma di lancio di una o più armi da 300 chilotoni, rompendo un tabù nucleare che risale a più di 80 anni fa. Invece la Russia, avrebbe vita facile a ricordarci, soprattutto in caso di sconfitta sul campo di battaglia, che dispone di mezzi nucleari tattici che potrebbe decidere di utilizzare, anche sul proprio territorio, per annientare le basi avversarie o le forze della coalizione europea, pur sostenendo che una guerra nucleare rimane impossibile da vincere e deve essere evitata.
Ma anche nel caso in cui la Russia violasse il tabù nucleare su un campo di battaglia che porterebbe alla morte di diverse migliaia di soldati europei, sarebbe credibile, ancora una volta, impegnare il nucleo della deterrenza nel suo formato attuale per contrastare questa minaccia? La risposta piuttosto candida di Emmanuel Macron, secondo cui non ci sarebbe alcuna risposta nucleare francese a un ipotetico attacco nucleare russo all’Ucraina nel 2022, solleva almeno dei dubbi, e quando si parla di deterrenza, la volontà di un leader è importante almeno quanto la credibilità del suo arsenale. Una delle ragioni principali di questa difficoltà è che il deterrente francese non ha una vera e propria “gradazione” nel suo concetto di utilizzo e nel suo arsenale. Dalla scomparsa della componente terrestre e della Forza Aerea Tattica, la sua scala manca dei pioli necessari per affrontare crisi importanti ma non esistenziali, troppo gravi per essere ignorate ma troppo remote per pensare di affrontare la minaccia radicale della distruzione reciproca assicurata. È vero che, con il missile ASMP-A, le Forze Aeree Strategiche (FAS) dispongono ancora di una capacità aerea che consente di effettuare attacchi più “misurati” rispetto alla SNLE, ma il loro ruolo è, come suggerisce il nome, eminentemente strategico e il loro coinvolgimento invierebbe un segnale chiaro: la Francia sta lanciando il suo allarme nucleare, è pronta a spingersi fino all’estremo, cosa che non sarebbe necessariamente vero, anzi.
Una deterrenza nucleare francese su scala europea: “risposta flessibile”, “deterrenza integrata”, “arsenale bis”
Il destino della deterrenza nucleare francese è senza dubbio, come qualcuno ha giustamente scritto, quello di non essere, in futuro, più “chimicamente puro” , sia in termini di isolamento dell’arma nucleare dal confronto convenzionale, ma anche in termini di idea che quest’arma sarà un deterrente in ogni circostanza. Come abbiamo visto, il concetto francese era pertinente quando la minaccia era forte, vicina e doveva essere attuata in modo brutale ed esistenziale. In queste condizioni, c’era una logica reale nel rifiutare il principio stesso di una guerra convenzionale (al di là di un breve shock) e nell’affidarsi alla promessa di reciproco annientamento per fermare l’aggressione sull’orlo del baratro. Le dichiarazioni francesi riguardanti il suo vicino confine estero (la Repubblica Federale Tedesca) potevano essere credibili, perché anche in questo caso erano molto vicine al territorio nazionale e coinvolgevano un corpo di battaglia di coscritti. Ma l’estensione di un “ombrello” nucleare francese all’Europa centrale e orientale, alla nostra profondità strategica, non può essere ottenuta con la stessa dottrina o lo stesso arsenale.
Non si tratta solo di una questione di numero di armi o di formato degli attuali componenti, ma piuttosto di rivedere il concetto centrale delle armi nucleari francesi. L’esempio americano delle garanzie all’Europa è illuminante: dopo i primissimi anni della Guerra Fredda e non appena è esistito il rischio di annientamento reciproco, è apparso chiaro che gli Stati Uniti non sarebbero stati necessariamente disposti a rischiare la propria sopravvivenza se avessero potuto sperare, senza sconfessare i propri alleati, di contenere un conflitto sul continente europeo. Di conseguenza, le forze convenzionali assunsero un’importanza sempre maggiore e, per evitare qualsiasi disaccoppiamento in caso di attacco nucleare sovietico limitato al continente europeo, gli Stati Uniti si dotarono di mezzi a raggio limitato per offrire una garanzia credibile di una risposta nucleare dall’Europa che non avrebbe coinvolto il cuore della triade che protegge il Nord America. Questo esempio può servire da guida per pensare al futuro di una forma di deterrente nucleare francese a beneficio dell’Europa.
Naturalmente, ciò significherebbe iniziare ad ammettere che Berlino, Varsavia o Tallinn non saranno mai Parigi. Non c’è disprezzo o abbandono in questa osservazione, ma solo la lucida constatazione che l’attuale organizzazione dell’Europa in Stati nazionali si basa su una realtà di comunità nazionali che, pur essendo vicine, solidali e amiche, non sono tuttavia né fungibili né destinate a sacrificarsi l’una all’altra. Ma possono condividere la loro difesa, e la maggior parte di esse lo fa già all’interno della NATO. Per essere credibile, una garanzia nucleare francese deve rispettare questa realtà, ma anche l’ordine nucleare globale e la sua chiave di volta, il Trattato di non proliferazione. È quindi fuori discussione sia trasferire armi nucleari “in Europa” sia incoraggiare la proliferazione nazionale in altri Paesi europei.
La credibilità primaria del deterrente nucleare francese a beneficio di un’Europa che è stata almeno in parte “abbandonata” dall’alleato americano richiede quindi il rafforzamento delle forze convenzionali francesi. Non per ricreare un corpo di leva sacrificale, ma per mettere a disposizione dell’Alleanza, come Parigi si è impegnata a fare, forze terrestri di dimensioni sufficienti (una divisione con relativo braccio aereo e supporto navale), che possano essere sostenute e aumentate nel tempo , nonostante pesanti perdite. Ciò richiede uno sforzo non solo in termini di capacità e industria, ma anche in termini di risorse umane. Non nella forma di una leva obbligatoria, ma piuttosto in quella di un aumento volumetrico della riserva operativa, sia in termini di numero che di giorni annuali di attività. Se, come ha sottolineato il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito francese, prima di pensare al volume bisogna pensare alla coerenza, non possiamo evitare di pensare ai numeri e alle perdite. Questo sforzo è complementare al rafforzamento della difesa aerea e missilistica o all’acquisizione di capacità di attacco convenzionale in profondità, che garantirebbero anche in questo caso una maggiore flessibilità per gestire un’escalation con la Russia.
Dobbiamo anche essere pronti a compiere questo sforzo nel lungo periodo. Se un eventuale conflitto tra la Russia e l’Europa sarebbe indubbiamente molto meno violento rispetto alle ipotesi del 1964-1991, sarebbe indubbiamente più lungo e peserebbe su forze più piccole che devono guadagnare in profondità temporale oltre che in coerenza e massa. Essere in grado non di dire, ma di dimostrare ai nostri alleati e ai nostri avversari che “ci saremo, numerosi, nel lungo periodo” è la prima condizione per essere credibili e dissuasivi. E poter prevedere di sventare l’aggressione russa con mezzi puramente convenzionali è diventato possibile e del tutto auspicabile. Allo stato attuale, finché dura almeno la garanzia nucleare degli Stati Uniti per l’Europa, è possibile lasciare le cose come stanno: la deterrenza francese su scala europea, finché Washington rimane affidabile agli occhi dei nostri alleati, non è probabilmente un’opzione. Tuttavia, gli Stati Uniti potrebbero volersi ritirare o astenere in caso di crisi convenzionale, ma mantenere una forma di garanzia nucleare come ultima risorsa.
Cosa succederebbe se gli Stati Uniti “se ne andassero” o se alcuni Paesi europei ammettessero, come la Francia, che la loro garanzia nucleare potrebbe essere incerta? Bruno Tertrais aveva accennato a questa prima possibilità in queste pagine (articolo in versione francese), parlando di uno “scenario Trump”, che porterebbe all’interruzione deliberata del legame nucleare transatlantico. La seconda fase di credibilità consisterebbe allora nell’avere, come gli euromissili, una forma di “arsenale bis”, separato dal nucleo di deterrenza nazionale, che sarebbe ancora basato sul tandem FAS-FOST (Forces Aériennes Stratégiques-Force océanique stratégique). Centrato su una componente terrestre (missili balistici e da crociera su trasporto con lanciatore-erettore), questo arsenale di poche decine di armi potrebbe essere basato interamente al di fuori della Francia, in Paesi partner volenterosi, tramite accordi bilaterali con Parigi, simili a quelli che attualmente consentono l’installazione di armi nucleari americane in Europa. Si presupporrebbe una capacità a doppio veicolo, il che è meno problematico per le forze non strategiche (dopo tutto, un Rafale è già un “doppio veicolo”), e queste forze potrebbero sia contribuire agli attacchi convenzionali in profondità sia consentire un’escalation nucleare “non strategica” se la Russia volesse muoversi in quest’area. Questo “arsenale bis”, che rimarrebbe di proprietà della Francia sotto il suo controllo esclusivo per rispettare il Trattato di non proliferazione, offrirebbe, in caso di crisi, una preziosa rassicurazione collettiva e una tappa intermedia nel dialogo nucleare, in grado di rispondere alle armi nucleari tattiche russe impegnate contro le forze francesi o il territorio dei suoi alleati senza che le sue opzioni siano limitate a “l’M51 o niente”. Naturalmente, il costo di questo ripristino della componente terrestre non sarebbe trascurabile e sarebbe auspicabile che i Paesi che ne beneficiano possano contribuire in un modo o nell’altro a sostenere questo onere comune, sempre senza violare il quadro di non proliferazione. La separazione di questo arsenale dal resto delle forze di dissuasione faciliterebbe questa questione di finanziamento.
L’ultimo elemento di credibilità, quello che in realtà è il fondamento di tutti gli altri, sarebbe un’evoluzione della dottrina e del pensiero strategico francese, per allinearlo alle questioni europee e al livello della minaccia. Ancora una volta, si tratta di difendere in modo credibile una profondità strategica che non è nazionale, senza affermare falsamente che la sua integrità è “vitale” per noi. Tenere conto dell’ “arsenale bis” significherebbe costruire una dottrina che sarebbe sempre dissuasiva e difensiva. La Francia può e deve continuare a rifiutare il principio della “battaglia” nucleare strategica. Ma può anche accettare che alcune armi nucleari a basso rendimento possano essere utili, separatamente dalle forze strategiche, per contrastare il rischio che la Russia utilizzi tali armi, in particolare se vedesse le sue forze convenzionali crollare di fronte all’Alleanza e volesse, soprattutto per ragioni di politica interna, ribaltare la situazione per evitare la sconfitta, combinando l’uso militare di armi nucleari tattiche con una santuarizzazione aggressiva attraverso una minaccia nucleare strategica. La risposta “flessibile” dell’ “arsenale bis” arsenale francese nel quadro di una deterrenza europea “integrata”, coesistente con la propria santuarizzazione strategica, avrebbe così sconfitto questa opzione russa – dissuadendola – e preservato quello che sarebbe rimasto il nucleo della risposta alleata, l’azione difensiva convenzionale. In definitiva, la Francia avrebbe preservato sia gli alleati che la propria libertà d’azione, che è uno dei vantaggi più preziosi della deterrenza.
Certo, queste riflessioni si basano su ipotesi che ad alcuni possono sembrare remote o impensabili, eterodosse o addirittura eretiche. La più insopportabile per la maggior parte dei nostri alleati sarebbe il ritiro della garanzia americana o il suo indebolimento terminale. Eppure, nel 2024, questo rischio non è mai stato così alto dal 1947, e la situazione di conflitto in Europa non è mai stata così accesa dalla fine degli anni Settanta. Se vogliamo evitare sia la guerra che la sottomissione, come abbiamo fatto contro l’URSS, dobbiamo sviluppare una nuova postura difensiva coerente e credibile. La deterrenza francese ha svolto magistralmente questo ruolo ambiguo all’interno dell’Alleanza fino alla caduta del Muro di Berlino, quando la minaccia era a 300 km dai suoi confini. Ora che è a 1.500 chilometri di distanza, dobbiamo ripensare il nostro intero modello di forze e la nostra dottrina di deterrenza, in primo luogo per recuperare una capacità convenzionale credibile che sarà sufficiente finché la protezione americana dell’Europa sarà credibile, e poi per iniziare a pensare al formato e alla dottrina che potrebbero permetterci di offrire all’Europa una forma credibile di garanzia estesa di sicurezza nucleare. In caso contrario, questo potrebbe contribuire ad incoraggiare alcuni Paesi europei a cercare autonomamente una propria deterrenza, rilanciando così i rischi di proliferazione nel cuore del continente. Naturalmente, in un momento in cui la Francia attraversa difficoltà di bilancio croniche, questo dibattito richiede scelte e, senza dubbio, rinunce che devono essere affrontate con coscienza, non dalle forze armate o dalla tecnostruttura, ma dalla classe politica.
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