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L’Africa è l’ultimo dei problemi di Trump, tra immigrazione, dazi e transizione. Cosa temono i leader locali


Nei giorni scorsi – dopo l’annuncio della vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane – quasi tutti i capi di Stato africani si sono affrettati a inviare le loro calorose felicitazioni al nuovo presidente Usa, augurandosi un prossimo quadriennio di intensi rapporti in tutti i campi.

Shithole countries

Nella politica internazionale, specialmente quando ci si rivolge a Washington, non c’è posto per recriminazioni e risentimento per antichi torti. Eppure le personalità africane che erano in carica il 12 gennaio 2018 non avranno certamente dimenticato quando Trump, in una conferenza stampa, definì i paesi del Continente come “shithole countries” (letteralmente “Stati letamaio”) da cui provenivano orde di immigrati. Nè avranno cancellato dalla memoria quel Gran Gala a New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni unite del 2017, in cui – facendo riferimento ai progressi della sanità in Africa – il tycoon chiamò “Nambia” quella che nel testo scritto doveva essere la Namibia (o lo Zambia? O il Gambia?). E ancora, quando nella stessa serata rivelò senza mezzi termini di avere fra i suoi amici numerosi businessmen che si erano recati in Africato make a lot of money” (fare un sacco di soldi).

Frenare l’espansionismo cinese nel Continente

Gli episodi richiamati aiutano a comprendere come il Continente africano non fosse esattamente nelle massime priorità del primo mandato del presidente Trump, che si contraddistinse per un approccio ai temi dell’Africa piuttosto superficiale, centrato principalmente sulle esigenze bilaterali degli Stati Uniti in materia di sicurezza, anti-terrorismo e importazioni di materiali strategici in America. E altresì sull’intenzione di frenare l’espansionismo cinese nel Continente, anche mediante l’istituzione – presso ogni ambasciata Usa in Africa – di un attaché dedicato esclusivamente al monitoraggio delle iniziative politiche, militari, economiche e culturali della Cina.

Dieci miliardi di dollari

Il multilateralismo, la promozione dei valori democratici, gli aspetti etici e dei diritti umani in Africa non rientrarono allora fra le primarie sensibilità trumpiane; e c’è da chiedersi se potranno rientrarvi adesso, quando fra le principali preoccupazioni della Casa Bianca figurano la guerra in Ucraina, i conflitti in Medio Oriente, l’Iran, la competizione commerciale e geostrategica con la Cina, i dazi doganali. Difficile ad esempio che la difesa a oltranza della causa palestinese a opera del Sud Africa, e le sue accuse a Israele di genocidio davanti la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, possano riscuotere le simpatie di The Donald. Che al contempo non gradirà le ambizioni del presidente Cyril Ramaphosa di ergersi a paladino del Sud Globale, in prospettiva dell’inizio del G20 a guida sudafricana, fra poche settimane. Improbabile altresì che intenda dedicare alle aree di crisi continentali (Sahel, Corno d’Africa, Sudan, Grandi Laghi) le stesse attenzioni e la stessa enorme quantità di finanziamenti dell’amministrazione Biden, valutabile in una decina di miliardi di dollari nel periodo del suo mandato.

La riduzione delle importazioni

Curioso poi il fatto che l’Africa Union, con la sua iniziativa dell’Accordo di libero scambio continentale (denominato ACTFA), vada in totale controtendenza rispetto alla nota propensione trumpiana verso il protezionismo doganale. Sempre in materia commerciale, resta un’incognita se Trump deciderà di confermare nel 2025 la vigenza dell’AGOA (African Growth and Opportunity Act), l’accordo grazie al quale entrano negli Stati Uniti in esenzione doganale circa 7.000 prodotti dei paesi del Continente, per un valore complessivo stimato nel 2023 a oltre 28 miliardi di dollari, cioè un’entrata essenziale per molte economie africane. Inoltre le finanze continentali potrebbero soffrire una riduzione delle importazioni di petrolio da parte degli Usa, considerata l’ossessione di Trump per l’indipendenza energetica americana e per l’aumento dell’estrazione di greggio dai pozzi nazionali.

L’attività americana nel continente

Poiché è noto lo scetticismo del president-elect per le teorie sul cambiamento climatico provocato dall’inquinamento industriale, è difficile attendersi stringenti impegni in favore della transizione energetica in Africa, in linea con le raccomandazioni delle COP più recenti – e delle prossime in calendario – a partire da quella appena apertasi a Baku (Cop29). E anche la continuazione del sostegno finanziario americano al Lobito Corridor – un ambizioso progetto di ristrutturazione della ferrovia fra il maggior porto dell’Angola, la RDC e lo Zambia, finanziato da Washington per circa 20 miliardi di dollari (e su cui l’Italia ha promesso un proprio supporto di 320 milioni di euro al G7 di Borgo Egnazia) – resta tutt’altro che sicuro. Probabile invece la conferma della legislazione statunitense in favore dei nuovi investimenti privati in Africa (Prosper Africa, lanciata nel 2018), specie tecnologici, che ha avuto finora un certo successo nell’incrementare la presenza di attività americane nel Continente.

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Infine non è difficile immaginare una forte “stretta” sul fronte dell’immigrazione clandestina in Usa, con decine di migliaia di africani irregolari che rischiano di essere deportati nei primi mesi della nuova presidenza nei loro paesi di origine, senza eccessive cautele sul fronte umanitario, trattandosi di una delle principali promesse elettorali di Trump su cui ha basato buona parte della sua campagna. The Donald fa comunque dell’imprevedibilità una delle sue carte vincenti. I leader del Continente potranno sperare in qualche inatteso cambio di strategia rispetto al passato, senza dare per scontato un regresso dell’attenzione degli Stati Uniti verso i temi africani. In fondo, per quanto attiene all’Africa nell’agenda di Trump, non è difficile migliorare dalla trascorsa esperienza presidenziale.





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