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Pop art e moda partner in crime alla Fondation Louis Vuitton



Mickalene Thomas, Tan n’ Terrific, 2024.

Esiste una stretta relazione fra la Pop Art e l’inizio della produzione in serie con il conseguente scoppio del consumismo di massa. Pop è l’abbreviazione di popolare e raccoglie in modo sintetico il significato di «comprensibile alle» e di «amato dalle» masse. Non è un caso che il termine appaia per la prima volta alla fine degli anni Cinquanta del 1900 quando prende il sopravvento un contesto socio-economico che segna l’avvento di una «società opulenta» in cui alla psicologia del risparmio e del produrre si sostituisce la psicologia dello spreco e del consumo. Questo dicono i sociologi e questo appare anche quando si guardano i prodotti in vendita negli Usa di quegli anni: ci sono perfino i dolciumi che si chiamo Pop-Pops e una linea di biancheria intima da uomo che si chiama Pop’s.

Le teorizzazioni arrivano dopo, e guarda caso dall’Europa: il termine Pop Art è stato proposto nel contesto culturale inglese dal critico letterario Leslie Fiedler (l’autore di Freaks) e dal critico d’arte Reyner Banham nel 1955 quando hanno definito pop i fenomeni della comunicazione di massa, come i fumetti, i rotocalchi, la televisione, il cinema e poi tutti i prodotti industriali di largo consumo. Per dire, è il momento in cui, recuperando un termine latino, arriva anche la definizione di Mass media. Di qui nascerà poi la Pop Art, cioè l’arte comprensibile a molti perché utilizza «i linguaggi popolari come mezzo espressivo»: ad esempio, i fumetti di Roy Lichtenstein che precedono le Campbell’s Soup Cans di Andy Warhol e via dicendo. Se questo è il percorso, si capisce come, andando avanti con gli anni e con l’ingresso prepotente della produzione in serie dei vestiti e di tutti gli altri beni di consumo, tra la Pop Art e la moda fosse inevitabile che scoppiasse un amore indissolubile. Con effetti estetici non sempre molto riusciti ma con l’uso di linguaggi comuni e spesso condivisi.

Pop art e moda partner in crime- immagine 3

Martial Raysse, America America, 1964, neon e pittura su metallo; 240x165x45 cm.

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Se dovessimo contare tutte le volte che un quadro di Warhol è finito su un vestito, non ne verremmo più a capo. Se poi aggiungiamo tutti quegli abiti e quegli accessori sui quali sono finiti Lichtenstein, Claes Oldenburg, Meret Oppenheim, Robert Rauschenberg, Martial Raysse e più di recente Jeff Koons o Yayoi Kusama, allora perdiamo il conto e la storia della moda degli ultimi 60 anni (a dare il via all’influenza è, nel 1965, l’abito Mondrian di Yves Saint Laurent – l’iniziatore è sempre lui…) diventa la storia della Pop Art, corrente invasiva e onnicomprensiva che ha segnato il tempo della modernità e che è arrivata fino a noi. Del resto, diceva il critico della Transavanguardia Achille Bonito Oliva, «Warhol è il Raffaello della società di massa americana che dà superficie a ogni profondità dell’immagine rendendola in tal modo immediatamente fruibile, pronta al consumo come ogni prodotto che affolla il nostro vivere». Affolla di certo il nostro quotidiano ma ancora anche i musei.

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Tom Wesselmann, Still Life #36, 1964.

Tanto è che la Fondation Louis Vuitton coglie il punto e, fino al 24 febbraio 2025, espone Pop Forever, Tom Wesselmann &… «mostra monster» con 150 opere del protagonista del titolo (1931-2004), figura carismatica, leader e precursore del movimento, oltre ad altre 70 di 35 artisti di diverse generazioni e nazionalità che hanno in comune la sensilibilità pop, dagli «antenati» dadaisti fino ai «nipoti» dei nostri giorni. Molto più di un’antologica, questo nuovo impegno della Fondation ci porta direttamente a un aspetto della Pop Art che non è semplicemente quello dell’arte ma riguarda il costume. E anche se l’istituzione francese che fa capo a Lvmh non lega le sue esposizioni alla moda, questa in molti modi ci riporta a osservare le influenze di quello che produce il core business del gruppo, cioè la moda. Ma ancora più che influenze, l’esposizione ci guida idealmente verso le similitudini.

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Evelyne Axell, Ice Cream, 1964.

E quindi ecco la mostra. Il punto di partenza dei due curatori di Pop Forever, Tom Wesselmann &… , Dieter Buchhart e Anna Karina Hofbauer, è l’opera di Wesselmann. Non proprio uno tra i più «popolari» rappresentanti della corrente. Nato nel 1931, Wesselmann inizia a dipingere alla fine degli anni Cinquanta producendo quadri classici (natura morta, nudo, paesaggio) ma presto incorpora nelle sue tele fotografie e cartelloni pubblicitari, immagini e oggetti. Ne ricava opere a metà strada fra pittura e scultura, composte con luce, movimento e suono e, con i suoi enormi e spettacolari still life, introduce il concetto di installazione con un formato mai visto prima nella storia dell’arte; proprio per questo offre affascinanti prospettive alla Pop Art che dilagherà da lì a poco.

E così, dicono i curatori, «verso la fine degli anni Cinquanta l’arte di massa si diffuse su entrambe le sponde dell’Atlantico. Fumetti, pubblicità, cinema, celebrità, robot da cucina e tabloid diventarono tutti soggetti di pittura. Quando non erano dipinti erano immagini fotografiche incollate o riprodotte sulla tela». E da qui nasce quel grado di ambiguità che contraddistingue tutto il percorso di quest’arte che celebra il matrimonio tra la cultura popolare, i musei e tutta l’industria culturale. Senza aver bisogno di scrivere manifesti «la Pop Art denomina un’estetica che si estende ben oltre il regno artistico e prevale ancora oggi. È difficile dire quando inizia la Pop Art, e certamente impossibile chiudere il capitolo su di essa» concludono. E di certo la moda l’ha aiutata a non chiudere ancora la sua storia perché le ha permesso di raggiungere più gente possibile, il suo obiettivo. Ed è così che ha smentito perfino la profezia del quarto d’ora di celebrità del suo esponente più popolare, Andy Warhol.



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