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La canzone di Eugenio Bennato sulla fabbrica di Mongiana alimenta in buona fede una bugia neoborbonica


«Che fine ha fatto il nome di Mongiana che era la più grande fabbrica d’Italia?» si chiede Eugenio Bennato, il grande cantautore della tradizione meridionale che ha deciso di sporcarsi le mani con un luogo industriale calabrese da tempo al centro di contese tra revisionisti borbonici e integrati delle fonti storiche realizzando sul controverso tema una canzone e un bellissimo video di animazione già in rete da due giorni  e che anticipa il nuovo disco di inediti in uscita il 10 gennaio. Tra l’altro il brano è stato realizzato con la collaborazione dell’Orchestra sinfonica Brutia di Cosenza diretta dal maestro Francesco Perri e con primo violino il cosentino Manuel Arlia. Eugenio, fratello di Edoardo, non è un neoborbonico, ma fin dai tempi di “Brigante se more” ha sempre posto attenzione alla Calabria che si è “arrevotata” e oggi con questa canzone si pone tra i revisionisti recitando nel suo testo “Mongiana Calabria profondo Sud.
Ed anche il suo nome si perda nel buio della sua fabbrica così nessuno all’idea di Calabria assocerà mai l’idea di ingegneri e di operai ma alla Calabria assocerà sempre l’idea di briganti o di povera gente”.

Siamo nel rivendicazionismo meridionale a priori. Con il rispetto che pur si deve ad un intellettuale impegnato come Eugenio Bennato crediamo di dover fare chiarezza sul punto prendendo alla lettera quello che sostiene nella sua “song” molto ispirata e che chiama in causa “qualcuno che pensi qualcuno che scriva qualcuno che canti qualcuno che dica, che fine ha fatto quel grande sogno che era il grande sogno di metà 800 che fine ha fatto il nome di Mongiana che era la più grande fabbrica d’Italia”. È il caso di mettere in chiaro le questioni dal punto storico e di non alimentare leggende. Nella sua storia della Calabria, uno storico autorevole e direi indiscutibile come Augusto Placanica si premura di evidenziare le note precise e minuziose scritte da Giuseppe Maria Galanti incaricato nel 1792 dal governo borbonico di andare a capire qual era lo stato delle cose nella ribollente Calabria animata da sussulti rivoluzionari. Nasce “Giornale di viaggio in Calabria” che è documento imprescindibile di cronaca in presa diretta scritto da un illuminista che lavora fedelmente per i Borboni (fonte preziosissima quindi per imparzialità).  Galanti scrive che a quel tempo nelle Ferriere di Mongiana lavoravano 200 persone (non 2500), che queste hanno vita breve, e che in media per il duro lavoro sui 40 anni se ne vanno all’altro mondo “o ciechi o paralitici”. La paga è scarsa e l’opificio affidato alla custodia dei militari, e per arrotondare si agevola il contrabbando e chiosa Galanti “colla scarsezza di soldi il Fisco fa due mali: mina li suoi interessi e corrompe la morale de’ popoli”. Questo lo stato delle cose presenti nel 1792 a Mongiana. Al maestro Bennato, della cui buona fede non dubito, mi tocca far notare che con la sua operazione culturale rischia di alimentare una leggenda borbonica al posto della Storia. Invito chi vuole capire meglio e approfondire di leggere il testo completo del viaggio in Calabria di Galanti riedito da Rubbettino nel 2008 con ottima curatela e prefazione di Luca Addante per meglio comprenderne testo e contesto.
Augusto Placanica fa giusta analisi dell’insediamento di Mongiana e di cosa ha realmente rappresentato tra Stato borbonico e Stato unitario quando scrive: «Talune forme di economia ricevettero un colpo assai duro dall’unificazione: basti pensare al tracollo e alla pressoché immediata soppressione delle attività minerarie e del sistema di ferriere di Mongiana-Ferdinandea-Serra-, che prima fabbricavano armi, munizioni, e taluni macchinari, (non ferrovie ndr) operando, sì fuori concorrenza e dietro commesse dello stato borbonico (donde la non piena economicità) ma che intanto costituivano, insieme con i nuclei campani, un punto alto dell’industria meridionale». 

A Mongiana sorge il Museo delle Reali ferriere borboniche dal 2016, inaugurato alla presenza dei discendenti borbonici arrivati a metter corona sulle loro tesi di parte su un insediamento industriale che ha una sua storia ma che le tesi neoborboniche hanno ingigantito nella loro dimensione. All’epoca della vicenda fece una buona ricognizione storica il giornalista Aldo Varano raccontando la vicenda nelle sue giuste dimensioni che si può sintetizzare con la sua frase “Le fabbriche della Mongiana non furono l’esempio di una realtà felice e ricca poi cancellata dalla furbizia di Garibaldi e dei piemontesi”. Le fabbriche dei Borboni sono state una sorta di lager di subalterni calabresi sorvegliati e governati da militari. Lo Stato unitario nato in modo avventuroso ristruttura tutto il sistema metallurgico degli staterelli che aveva riunificato sotto i Savoia. Erano opifici antiquati e poco concorrenziali. La chiusura di Mongiana fu coeva a quelle in Toscana, presso Pistoia, Pietrasanta, Valdelsa e in Lombardia, nell’alta Valtellina, Valsassina, Val Brembana, Val Sertiana, Val di Scalve che erano più moderne e meno mortali di quelli calabresi. Eravamo già in capitalismo globale e la metallurgia europea era più competitiva rispetto ai ferrivecchi italiani riuscendo a praticare prezzi molto più bassi dei suoi manufatti che arrivarono nei porti italiani. La dismissione, quindi, fu generale e non antimeridionale. Va detto che i residui ferrosi di Mongiana furono svenduti alle Ferriere dell’isola d’Elba e che gli impianti calabresi messi all’asta finirono in mano alla famiglia Fazzari “di non lontana ubbidienza garibaldina” e possiamo affermare che gli speculatori non mancano mai in nessuna epoca e che non si trattò di un piano organizzato del Nord contro il Sud.

bennato mongiana

Eugenio Bennato con la sua canzone riapre un dibattito anche utile, ma evitiamo di pensare che a Mongiana visse la modernità industriale prima del tempo e che in Calabria abbiamo perso un Eldorado. I documenti e le fonti più accertate raccontano una Storia ben differente, “ma almeno qualcuno ricordi Mongiana” senza alimentare leggende o, peggio, una grande bugia. Perché la bella canzone di Bennato rischia di essere aderente a quella citazione attribuita a Goebbels (non c’è certezza neanche che sia veramente sua) e che recita “Una bugia detta molte volte alla fine diventa una verità”. Poi in tempi di postverità vi lascio immaginare. (redazione@corrierecal.it)

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