Il patriarcato esiste
di Maria Teresa Covatta
In apertura dello scritto “Sulla servitù delle donne” del 1836 John Stuart Mill chiarisce che la condizione di inferiorità giuridica delle donne si fonda su un principio sbagliato in se stesso in quanto trae la sua legittimazione da consuetudini che, non essendo il prodotto di una deliberazione fondata su ragioni di giustizia o utilità sociale, risultano essere un retaggio di barbarie, un frammento del sistema del diritto fondato sulla forza nonché l’esatto contrario di ciò che definiamo come civilizzazione.
Mill afferma che, atteso che la storia stessa del progresso della civiltà coincide con la progressiva abolizione del diritto fondato sulla forza in favore di relazioni regolate in base ai principi moderni di libertà e uguaglianza, qualunque sistema che tolleri l’inferiorità della donna rispetto all’uomo risulta storicamente e logicamente contraddittorio
Queste parole che possono ritenersi superate rispetto al nostro sistema giuridico attuale, certamente formalmente tra i più avanzati in tema di parità e di contrasto alla violenza di genere, meritano tutt’oggi una riflessione atteso che l’uso della forza è ancora, di fatto, uno dei modi in cui viene gestita la relazione uomo donna
La lotta a questa persistenza della barbarie è il senso della giornata mondiale della violenza contro le donne che si celebra il 25 novembre.
Il patriarcato esiste ancora. Inoltre chiamarlo maschilismo, come ha precisato di recente il ministro della pubblica istruzione italiano, per chiarire la sua precedente affermazione secondo cui il patriarcato non esiste, non cambia le cose posto che una diversa terminologia non modifica la realtà. Con il termine maschilismo, infatti, si indica l’adesione a comportamenti, atteggiamenti personali, sociali e culturali con cui gli uomini esprimono la convinzione di una loro superiorità nei confronti della donna sul piano intellettuale, psicologico, biologico che legittima posizioni di possesso, di predominio e di autoritarismo, occupando una posizione di privilegio nella società.
In sociologia il patriarcato è un sistema sociale in cui gli uomini detengono in via primaria il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale, privilegio sociale e talora persino di controllo della proprietà privata, esercitando, in ambito familiare, quale figura maschile di riferimento, la propria autorità sulla donna e sui figli.
Se storicamente il termine patriarcato è stato usato per riferirsi al dominio autocratico da parte del capo di una famiglia, in tempi moderni si riferisce più generalmente a un sistema sociale in cui il potere è prevalentemente detenuto dagli uomini adulti ed esercitato secondo un modello “maschilista” nel senso detto sopra.
Il patriarcato come sistema di controllo istituzionalizzato ha dato in passato, e dà ancora oggi in una grandissima parte del mondo, un diritto al possesso della donna inteso come diritto anche all’abuso fisico e psicologico
La congiuntura tra patriarcato come privilegio e autorità e la concezione della donna come proprietà finisce per sfociare in quella che è stata definita la “cultura dello stupro” in cui violenza sessuale e altre forme di violenza verso le donne sono viste come possibili all’interno di un ordine sociale barbarico, per dirla con Mill, che resiste e impedisce di superare, nell’ambito dei rapporti tra i sessi, quel particolare tipo di relazione che ancora ci ricorda, nel contesto familiare, il rapporto padrone che comanda e servo che deve ubbidire, nel rapporto politico quello tra despota che decide e suddito che non ha diritto di protestare e infine, nel contesto dei conflitti, quello tra il vincitore e il vinto da annientare fisicamente e psicologicamente.
Il corpo della donna, già bottino in tutte le guerre, diventa anche in tempo di pace campo di battaglia perché attraverso la violenza sessuale e l’annientamento definitivo del corpo femminile si afferma una signoria a cui non si rinuncia nonostante le leggi formali, nazionali e internazionali, lo vietino. E che supporta il diritto a reprimere le decisioni delle donne di affrancarsi da relazioni violente o semplicemente non gradite o, in contesti internazionali sempre più vicini, a manifestare il proprio dissenso o la propria aspirazione alla libertà.
La violenza che si consuma in ambito familiare anche nei paesi civili spesso seguita anche dall’uccisione, come ci raccontano gli agghiaccianti dati dei femminicidi di casa nostra, si manifesta come esercizio di potere sociale e si affianca al fenomeno sempre troppo poco conosciuto dello stupro di guerra e allo stupro come arma di repressione politica, costituendo tutti insieme declinazioni diverse di un orrendo crimine che ha un unico comune denominatore, qual è quello dell’esercizio di un dominio in nome della prevalenza della forza fisica.
Lo stupro di guerra da sempre usato come arma massiva, ancorché riconosciuto come crimine contro l’umanità, resta sempre ai livelli più alti della hit della violenza contro le donne, come forma di annientamento del nemico umiliandolo, terrorizzandolo e modificandone l’assetto politico a fronte di eventuali intelligenze con gli opponenti.
Ed è ancora oggi una vera e propria piaga che tutti gli enfatici “mai più” pronunciati dall’umanità in risposta agli orrori delle due guerre mondiali non sono stati in grado né di arginare né di punire assicurando i colpevoli alla giustizia
Dal passato proseguendo fino alla terrificante realtà dell’oggi, in conflitti sempre più vicini e più massificati, la violenza sessuale resta un’arma di dominazione agita contro il nemico usando il corpo delle donne: dalle dominazioni coloniali al genocidio armeno dalle “marocchinate” alle “mongolate” dell’Italia della seconda guerra mondiale alle violenze perpetrate nella ex Jugoslavia e alla violenza assurta a pulizia etnica in Bosnia Erzegovina, passando per il Ruanda, la Palestina, la Somalia, la Nigeria, l’India, l’ex Birmania, il Darfur, le terre Curde occupate dall’Isis fino all’America Latina e ancora, in tempi più vicini, la Repubblica popolare del Congo, la Siria, l’Etiopia, la Colombia, Haiti, l’Ucraina, Israele e Gaza.
Secondo i dati di Strategic Initiative for Women in the Horn of Africa, in Sudan sono sempre più le donne che scelgono il suicidio piuttosto che sottostare allo stupro di massa perpetrato sia dalle milizie RSF che dall’esercito golpista i quali, secondo il rapporto di United Nation High Commissioner for Human Rights (OHCHR) violentano e uccidono anche bambine di pochi anni.
Ma lo stupro è anche una potente arma politica, praticata anche da noi fortunatamente in un passato lontano anche se non lontanissimo come ci ricorda la terribile violenza che fu esercitata contro Franca Rame.
Secondo le fonti di Amnesty International riportate da Avvenire, la violenza sessuale è stata utilizzata diffusamente dalle autorità iraniane come arma nell’arsenale della repressione delle proteste per Donna Vita e Libertà.
Lo stesso sta accadendo in Myanmar per reprimere l’opposizione al regime militare instauratosi nel 2021: come dire se la protesta è donna la violenza sessuale procede o segue le percosse e le torture riservate a tutti.
Anche in Afghanistan le donne che protestano contro l’applicazione dei precetti talebani sono incarcerate e lì ripetutamente abusate. E, per concludere l’opera, segue la puntuale video registrazione dell’abuso, con l’esposizione del corpo nudo e del viso ben riconoscibile della vittima, che consente, attraverso la diffusione, di ricattarla e di vittimizzarla ancora di più.
E dunque, come accade nel nostro mondo occidentale e civilizzato dove si registra un aumento esponenziale della diffusione on line di messaggi di odio sessuale, anche l’uso della tecnologia può essere un’arma attraverso cui il patriarcato (o il maschilismo se il termine piace di più!) manifesta la volontà maschile di non perdere il potere sul corpo e sulla vita delle donne.
Una volontà che ancora oggi trova un fertile terreno nell’affermazione, anche pubblica, di cause di giustificazione morale legittimanti le condotte violente. Tra queste al primo posto la gelosia, che, nonostante l’abolizione del diritto d’onore dati al 1981, continua, anche nelle aule dei tribunali, ad essere portata avanti come causa del comportamento violento maschile la cui responsabilità va dunque ricondotta alla donna che vi ha dato causa.
E ciò perché rimane ancora il pervasivo retaggio della cultura patriarcale tradizionale secondo cui, nei rapporti affettivi, la gelosia è ritenuta un segno d’amore facendo della possessività, soprattutto maschile, la cifra di relazioni in cui il dominio e il controllo sull’altro sono la regola.
Così il “diritto di proteggere” celato dietro un preteso dovere di protezione che ha ben altri contenuti e che inevitabilmente rimanda all’esercizio del controllo, alla cancellazione del diritto di autodeterminazione, anche in relazione alla procreazione, e alla privazione di una o di più libertà.
Non può che leggersi così la promessa del capo di un’importante Paese Occidentale Civilizzato di “proteggere le donne anche contro la loro volontà”.
Non per fare paragoni e tornando al regime talebano, si segnala la forte condanna espressa di recente dall’ONU contro la pratica ora invalsa in Afghanistan di imprigionare le donne vittime di abuso sessuale, giustificando la carcerazione con la necessità di proteggerle, ovviamente contro la loro volontà, e ancora una volta facendo pagare il danno al danneggiato.
Volendo formulare un augurio per questo 25 novembre la speranza è che ci siano presto leggi e soprattutto percorsi culturali che servano a sradicare il patriarcato, partendo dalla consapevolezza della sua esistenza, e che possano formare, anche nei giovani, una nuova coscienza del rapporto uomo donna. E che cancellino per sempre l’idea che le donne debbano essere protette con un “tipo” di protezione decisa dagli uomini.
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