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VERSO LE REGIONALI 2025/ La vera sconfitta del centrodestra non è quella in Emilia-Romagna e Umbria


Le recenti elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria hanno segnato una battuta di arresto per il centrodestra e tanto è bastato per fare dire al centrosinistra che la loro alleanza è in condizione di contendere lo spazio al governo Meloni; quest’ultima, poi, ha avanzato una qualche espressione di autocritica, facendo riferimento a ciò che non ha funzionato.



In realtà, via via che si stanno svolgendo i test regionali (Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Piemonte e Liguria e prossimamente, nel 2025, Campania, Marche, Puglia, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto) sembra emergere uno scenario che coinvolge tutta la politica nazionale, sia per via della polarizzazione che il sistema elettorale regionale favorisce, sia per la costante perdita di sostanza democratica, per via dell’astensionismo che si va consolidando sul 50%: un elettore su due non si reca più alle urne. Poi vi sono le politiche pubbliche, che dovrebbero essere articolate a livello territoriale, sulle quali, anche se hanno il loro baricentro a livello regionale come la sanità e il trasporto pubblico locale, pesano soprattutto i cambi di governo nazionali, che finiscono con il coinvolgere tutte le forze politiche che negli ultimi vent’anni hanno avuto responsabilità ministeriali.



Cominciamo con il dire che la perdita dell’Umbria è stata poco significativa. Questa regione è sempre stata in mano alla sinistra e lo spostamento precedente dipendeva dalle difficoltà del Pd, che oggi è in ripresa.

Nelle prossime tornate, in almeno cinque delle sei regioni chiamate al voto il risultato appare contendibile. Il problema del terzo mandato lo hanno entrambi gli schieramenti, il centrodestra per Zaia e il centrosinistra per De Luca ed Emiliano. Non credo che senza Zaia il Veneto vada al centrosinistra, ma quasi certamente la Puglia e la Campania, senza i due governatori uscenti, non è affatto scontato che siano mantenute dalla sinistra, soprattutto se questa si presenterà divisa.

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Le ragioni per tenere fermo il divieto del terzo mandato sono di bottega; non esiste alcun principio costituzionale che ostacoli il terzo (e pure il quarto) mandato. Molto chiaramente Fratelli d’Italia vuole una delle grandi regioni del Nord e, avendo rinunciato a Lombardia e Piemonte, resta solo il Veneto con il problema Zaia. Dal canto suo, il Pd non può accettare figure che nel territorio sovrastino la leadership nazionale, perché metterebbe in risalto che non ha un vero leader, ma che siamo in presenza di un gruppo dirigente dedito alla spartizione del potere interno, per cui De Luca ed Emiliano, in questa filosofia politica, appaiono essere delle figure troppo ingombranti.

Nella sostanza, però, sia che si vinca, sia che si perda, per i cittadini cambia ben poco e tra centrodestra e centrosinistra la partita delle elezioni regionali sembra essere poco più di uno scambio di figurine Panini. Cioè vi è un contesto politico unico nel quale i due schieramenti simulano di contrastarsi e di contrapporsi, ma in realtà ricercano semplicemente la loro sopravvivenza politica.

Questo spiega già e molto bene la disaffezione dei cittadini al voto regionale.

I partiti politici dovrebbero essere preoccupati dal dato di astensionismo nel voto che costantemente è sul 50% e che in alcuni casi nel recente passato ha sfiorato quote perfino molto più alte. In un modo come nell’altro, se i cittadini non si recano alle urne, questo dato colpisce la legittimazione a rappresentare il corpo elettorale e a esercitare il potere. Si ha un bel dire che chi non vota di fatto delega chi vota e che chi vota decide anche per chi non vota: questo è vero in via di massima e sempre che l’astensione sia un fatto limitato, con un carattere fisiologico, ma quando la platea elettorale dei votanti si riduce costantemente, la legittimazione a governare viene meno e tutte le maggioranze parlamentari o consiliari di fatto sono minoranze nel Paese e nella regione.

Dovrebbe, questa situazione, preoccupare i leader politici nazionali? In un Paese dove la politica viene presa sul serio, certamente sì. Ed invece, se si guardano le dichiarazioni a commento dei risultati, troviamo solo qualche battuta di sfuggita e il fenomeno in sé è totalmente ignorato.

Non resta, allora, che prendere atto che la disaffezione al voto per questa classe politica non solo non è un problema, ma soprattutto costituisce una fortuna politica. Meno elettori significa, innanzi tutto, meno lavoro e bastano molti meno voti per ottenere seggi e poltrone. Inoltre, se un tempo i partiti politici mantenevano una rete territoriale, grazie alla quale si accostavano ai cittadini e questi, a loro volta, si accostavano a loro, adesso sono sufficienti le reti virtuali e un lavoro da influencer con studi di marketing sull’opinione pubblica, per cercare di ottenere il consenso, sull’onda di parole d’ordine. Ciò ha comportato, per un verso, un distacco dalla realtà, e cioè dai problemi concreti dei territori, e, per l’altro, un non riconoscersi più nelle diverse formazioni politiche da parte dei cittadini, soprattutto se i cittadini chiedono qualcosa in più rispetto a stereotipate parole d’ordine.

Veniamo così alle politiche pubbliche. Esistono linee di politica pubblica che si possono definire di centrodestra e linee che si possono definire di centrosinistra? Certamente sì. La differenza sta essenzialmente nel modo di intendere e praticare la redistribuzione della ricchezza. Per una linea di centrodestra la redistribuzione dovrebbe avvenire attraverso il mercato e il lavoro, dove il mercato non è una bestemmia, ma un luogo ordinato e controllato in cui si misurano e si scambiano i valori dei beni compreso il lavoro che, se correttamente sindacalizzato, può ottenere riconoscimenti e retribuzioni più alte; in questo caso si privilegia l’eguaglianza di accesso al mercato e la valorizzazione del merito professionale.

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Il mercato richiede sempre la presenza dello Stato, ma in un senso affatto diverso da quello che si auspica in una linea politica di centrosinistra, nella quale lo Stato determina i valori di scambio, spesso danneggiando imprese e lavoratori. In questa logica, non vi è più una vera eguaglianza, ma condizioni di privilegio che caratterizzano categorie e sottocategorie di persone e gli strumenti sono dati da bonus, esenzioni e condizioni di accesso riservato persino ai servizi pubblici. Il lavoro è in genere sottostimato e il merito negletto.

Abbiamo avuto decenni di questa politica fatta dai vari governi che si sono susseguiti e derivata dallo stile di governo della prima Repubblica, quando debito pubblico e assistenzialismo andavano a braccetto. Per di più, abbiamo avuto scarso senso della legalità, dal mancato rispetto delle norme sul lavoro, con un mercato della manodopera non degno di un Paese occidentale, ad un alto tasso di evasione e di elusione fiscale con una pressione fiscale molto alta, altissima soprattutto per quella parte minoritaria di cittadini che paga le imposte.

Inoltre, lo Stato è stato gestito in modo sempre più precario, dove alla fragilità del sistema produttivo ha fatto riscontro la fragilità dell’intervento pubblico. Infrastrutture e sicurezza sono carenti; il sistema della formazione, scuola e università, è degradato; la capacità di intervento pubblico in situazioni di emergenza è alquanto labile, come ha mostrato il Covid, ma anche le diverse alluvioni, come pure la siccità.

Il governo Meloni ha rappresentato una inversione di tendenza? Sino a questo momento certamente no. Anzi, per molti versi ha rappresentato una infelice continuità di cui sta pagando il prezzo il ceto medio, quella che un tempo si chiamava “borghesia” e che oggi ha difficoltà crescenti a mantenere i consumi del Paese e la domanda interna.

Se effettivamente così stanno le cose, il dibattito pubblico è semplicemente un bailamme che serve per distrarre i cittadini, per i quali – mancando differenze politiche reali – non è più utile andare a votare. Infatti, si vota per cambiare le cose. Ma se queste restano sempre uguali, allora perché votare?

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