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Povertà educativa: urge un’alleanza forte tra scuola, terzo settore e famiglie


Toccano con mano ogni giorno la povertà educativa, che nelle periferie va a braccetto con la povertà economica e il disagio sociale, ma che non manca nelle realtà benestanti, rivelata dai conflitti crescenti tra scuola e famiglie.

La affrontano educando alla bellezza, al pensiero filosofico, alla complessità, all’arte, alla musica, persino all’imprenditoria.

La scardinano ascoltando bambini e adolescenti e rendendoli protagonisti.

La sfidano, mettendosi per primi in discussione.

Sono insegnanti, educatori, pedagogisti, esperti di laboratori creativi che in diverse parti di Italia, insieme, in un’alleanza educativa, cercano di rendere la scuola un porto sicuro che accolga e formi giovani oggi sempre più in crisi, tra il rischio di diventare dipendenti da videogiochi e cibo spazzatura e la concreta possibilità di soffrire di crisi d’ansia o di malessere psicologico.

La notizia positiva è che, nonostante tutto, le giovani generazioni non hanno smesso di sognare: restano fiduciose nel futuro, si occupano di ecologia e di volontariato e si battono per ciò in cui credono. Merito dell’entusiasmo legato all’età, ma anche di buone pratiche che esistono e che, soprattutto, funzionano.

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Se n’è parlato a Roma in una tre giorni dedicata ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e in particolare durante l’incontro “Scuola: educare, non solo istruire” organizzato dalla onlus Con i bambini all’interno della campagna Non sono emergenza” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile.

La scuola contro la povertà educativa

Così può accadere che bambini della scuola primaria si accostino alla filosofia. E che nello stesso istituto comprensivo, con allievi dai 3 ai 13 anni, si possa usufruire anche di un potenziamento delle discipline Stem, di una sezione musicale, di una sezione Clil e di lezioni “outdoor” su panchine installate nelle aree verdi appartenenti alla scuola.

Succede per esempio a Roma, all’istituto Mozart: “L’insegnamento della filosofia è utile perché apre e stimola la mente non con meccanismi banali tipo i like cui ci costringono i social – osserva Giovanni Cogliandro, dirigente del Mozart e docente di filosofia -, ma tramite un confronto con gli insegnanti, con i compagni, con il mondo, ad esempio, dell’arte. In questo modo il bambino può arrivare a dire di qualcosa non tanto “mi piace, non mi piace”, ma “lo penso giusto o lo penso sbagliato”, “buono o non buono, bello o non bello e perché”. Si tratta di categorie molto più ampie di un like”.

Saper discutere diventa quindi un antidoto ai conflitti, spesso anche violenti, e alle difficoltà di comunicazione che allontanano i ragazzi dal mondo degli adulti, sia a casa che a scuola. “Secondo noi è fondamentale per i docenti formarsi su una pedagogia centrata sulla persona, sullo sviluppo integrale delle proprie emozioni – continua Cogliandro – per non cadere preda delle pulsioni più basse”.

E per non cadere, invece, vittime della realtà virtuale, “occorre riappropriarsi del proprio corpo – sostiene Cogliandro -, anche attraverso il contatto fisico con gli altri, seguendo lezioni all’aria aperta, piuttosto che stando in un’aula immersiva generata dall’Intelligenza artificiale”

E nonostante si definisca un “nerd” dai tempi del liceo, consiglia di leggere di filosofia, di studiare, di fermarsi a riflettere, di distogliere lo sguardo dallo smartphone per parlare non con l’intelligenza artificiale, ma vis-à-vis con le persone anche il “super prof” Carlo Mazzone, primo italiano tra i dieci finalisti al Nobel per gli insegnanti, il Global Teacher Prize 2020. Ex consulente IT, ora insegna informatica all’Istituto tecnico Bosco Lucarelli di Benevento. E’ tornato tra i banchi di scuola nel 2004 e da allora è stato un vulcano di idee e di stimoli per i suoi studenti.

“Mi sono subito chiesto come fare ad appassionare i ragazzi perché non riuscivo a trovare nei libri di testo e nei ragazzi quel senso della realtà che vedevo in azienda – racconta -. Cominciai quindi a scrivere io qualcosa per loro e poi feci in modo che fossero loro a chiedermi cosa potesse servirgli”.

Nasce quindi una modalità didattica che Mazzone chiama Vivariumware, neologismo per materiale da vivaio. “Tale metodologia – dice – sfrutta un approccio basato sull’imprenditorialità e punta a realizzare delle vere e proprie startup all’interno delle classi”. E’ il primo tassello del progetto ‘La scuola fuori’, una scuola aperta all’esterno, un incubatore di startup innovative che consentono ai ragazzi di creare imprese, in sinergia con università, centri di ricerca, associazioni e investitori privati. Tra gli esempi virtuosi c’è Farm Animal Trade, market place per la compravendita di animali da allevamento senza la figura dell’intermediario.

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L’ultima, visionaria, idea del super prof è la creazione di una Silicon Valley nel Sannio, territorio che deve fare i conti con lo spopolamento e l’impoverimento del tessuto sociale ed economico. “Attraverso la sinergia tra imprese, enti di formazione, istituzioni, terzo settore – dice Mazzone -.  Sannio Valley cerca di creare sviluppo mettendo al centro il digitale come strumento attrattivo. Ora sta ai ragazzi che vogliono restare al Sud studiare e formarsi adeguatamente per lavorarci”.

Il terzo settore affianca la scuola nel contrasto alla povertà educativa

Sempre al Sud, a Palermo, c’è chi, di pomeriggio, riapre le scuole per contrastare le disuguaglianze educative. E’ il caso del Dipartimento di Cooperazione locale del Cesie (Centro studi e iniziative europeo), fondato nel 2001 e ispirato al lavoro e alle teorie del sociologo Danilo Dolci.

“Il progetto o per meglio dire il processo, nato nel 2019, è il Base Camp, presidi educativi territoriali, uno dei quali è a Palermo – spiega la coordinatrice Tiziana Giordano -. In sostanza teniamo aperta una scuola per fornire un’educazione personalizzata a chi ha difficoltà di rendimento per un metodo di studio sbagliato o perché vive in un contesto disagiato. Il nostro è un modello di scuola dei diritti, di cittadinanza, non solo dell’obbligo. I nostri ragazzi incontrano artisti, musicisti, visitano, spesso per la prima volta, un museo e i loro successi sono frutto di un’alleanza educativa tra scuola, terzo settore e famiglie”. Se ne parlerà anche a Palermo il 29 novembre 2024 a un convegno sul tema della povertà educatica e delle disuguaglianze.

La presenza di una “comunità educante” che coinvolga diversi soggetti è necessaria per il contrasto alla povertà educativa. Anche a Matemù, uno spazio creato e gestito dal CIES Onlus e ospitato a Roma nei locali del Municipio Roma I, operano diverse figure professionali. “Garantiamo a tutti, bambini e giovani dai 10 ai 25 anni, l’accesso gratuito a corsi di teatro, musica, danza, arte, ma anche ai corsi di italiano per stranieri, all’orientamento al lavoro – spiega Adriano Rossi, educatore -. Coltiviamo nei ragazzi la spinta al desiderio, alle aspirazioni, ai sogni e cerchiamo di far capire loro che occorre riconoscere e affrontare le proprie emozioni, anche la paura e le debolezze”.

Contro la povertà educativa serve un’alleanza tra scuola, famiglia e terzo settore

A tirare le somme sul ruolo della scuola in una società in continua evoluzione è Marco Rossi Doria, primo maestro di strada in Italia e sottosegretario dei governi Monti e Letta. Si è trovato spesso a lavorare a stretto contatto col disagio giovanile. L’onlus di cui è presidente, “Con i bambini”, dal 2016 attua i programmi del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. I progetti della onlus hanno messo in rete oltre 9.500 organizzazioni, tra Terzo settore, scuole, enti pubblici e privati, rafforzando le comunità educanti dei territori.

Per questo Rossi Doria non transige su un punto: “Non possiamo permetterci di assegnare alla scuola italiana compiti più gravosi rispetto a quelli di qualsiasi altra scuola del mondo non occidentale, quindi della maggior parte delle scuole – osserva –, né possiamo essere nostalgici del passato. Abbiamo un compito di riparazione antropologica, perché è venuto meno quel retroterra di riconoscimento dell’autorità dell’insegnante, di senso del limite nel linguaggio, di individuazione dei diversi momenti della socialità che permetteva al docente di adempiere al solo compito di istruire. Oggi il docente deve anche educare, ma non può farlo da solo: dobbiamo mettere insieme tutte le risorse educative disponibili, quelle di insegnanti, coach sportivi, psicologi, genitori”.

Come si affrontano quindi nel concreto i problemi di apprendimento che inevitabilmente sorgono sia nei contesti disagiati sia in quelli benestanti? Stefano Rossi, pedagogista e saggista (i suoi bestseller per genitori e insegnanti trattano di educazione emotiva e ai sentimenti) educatore di strada a Milano, anche in carcere, risponde con due parole chiave: regole e amore.

“Evaporata la pedana che segnava una distanza tra alunni e insegnanti, con una pedagogia dei castighi, e messi alla pari con gli studenti, oggi i docenti non possono insegnare con l’autorità – osserva -. I bambini e i ragazzi cosiddetti ribelli o oppositivi testano non l’autorità, ma la verità dell’amore del docente nei loro confronti, cercano di capire se è reale l’interesse verso di loro, soprattutto se vengono da contesti difficili e hanno assistito alla frantumazione delle loro certezze. Per creare un porto sicuro occorre integrare l’autorevolezza con l’amore”.

La didattica delle avventure cognitive

Dagli ultimi dati Invalsi emerge un miglioramento generale rispetto all’anno precedente ma i risultati non sono soddisfacenti né in italiano né in matematica, soprattutto al Sud.

“La chiave è rimettere al centro i ragazzi – osserva Rossi Doria -, superando ad esempio il concetto di classe e dividendoli invece a seconda dei loro bisogni, e poi adottare la pedagogia delle avventure cognitive, attraverso laboratori ed esperienze concrete, in modo che esse appassionino gli allievi e consentano di reintrodurre quella che è la fatica necessaria della scuola, cioè gli esercizi, lo studio, le ripetizioni e anche la frustrazione che a volte ne deriva. Un ragazzo appassionato è più propenso alla disciplina”.

In questo senso, le comunità educanti in contesti socio economici difficili, danno buoni risultati: “Lì non si può contare sull’aiuto delle famiglie – spiega Rossi Doria -e gli insegnanti sono costretti ad inventarsi questa didattica dell’avventura. Le nostre però sono singole buone pratiche. Perché il discorso diventi generale occorre superare molte resistenze”.

Qualcosa però si può fare anche nel piccolo: “Dato che i giovani di oggi hanno una soglia d’attenzione molto bassa si deve superare la lezione frontale – conclude Stefano Rossi -. Si può introdurre l’argomento nei primi dieci minuti e poi far lavorare i ragazzi in coppia. Migliorerebbe la loro capacità di dialogo, il metodo di studio, l’autostima e renderebbe il docente meno noioso e più autorevole. Inoltre, riporterebbe al centro l’importanza del noi, della comunità, migliorando anche la capacità di gestione dell’ansia, che tanto condiziona i nostri ragazzi”.



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