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“Potere, soldi, corruzione: si chiama guerra e si proclama giusta” – In un libro le missioni di Gennaro Giudetti al fianco degli ultimi: l’estratto


Un viaggio che attraversa le sofferenze di tutto il mondo: dalla Colombia al Libano, dall’Ucraina alle baraccopoli di Nairobi fino al cuore del Mediterraneo per il salvataggio dei migranti naufraghi. Gennaro Giudetti, operatore umanitario da quasi 15 anni, racconta le sue missioni in Con loro come loro – Storie di donne e bambini in fuga (Ed. Paoline, 216 pagg., 15 euro), firmato con la giornalista e scrittrice Angela Iantosca. Un viaggio al fianco di chi è considerato ultimo e che comincia in mare, con i salvataggi dei migranti, e prosegue nei campi profughi del Libano e in Colombia, in Ucraina e negli ospedali di Codogno e dello Yemen, durante l’emergenza Covid, e in Kenya tra gli ultimi degli ultimi, dove chi non rispetta le regole viene bruciato vivo nei copertoni abbandonati delle auto. Un racconto che non può lasciare indifferenti, che parla di possibilità, di assenza di pregiudizi, del desiderio di comprendere, vivendo “con loro come loro”, in quei campi profughi, in quelle comunità di pace, sotto le bombe della guerra, nelle case famiglia.

Con loro, come loro nasce da una serie di dialoghi, interviste, messaggi con Angela Iantosca. “Non volevamo il racconto romanzato di una delle sue incredibili esperienze, ma volevamo far arrivare a chi prenderà in mano questo libro quel dolore che accomuna troppe persone nel mondo, far capire il privilegio di cui godiamo in ogni istante, far sentire che è anche nostra responsabilità se i bambini, le donne e gli uomini muoiono, scappano, soffrono. E poi abbiamo deciso che il filo rosso di questo racconto fosse Gennaro, la sua vita personale, il suo passato, perché ognuno di noi ha qualcosa dentro, una dote, una capacità, una luce, anche se a volte gli ostacoli, le difficoltà ci impediscono di vederla. Ma quella luce è lì, ad aspettarci. Bisogna solo scoprire qual è e farla esplodere”.

Giudetti opera in zone di guerra, emergenze e crisi internazionali. Ha lavorato in diversi Paesi e nelle operazioni di ricerca e salvataggio di migranti nel Mar Mediterraneo. Ha collaborato con varie ong (Medici Senza Frontiere, Action contre la faim, Operazione Colomba, Sea Watch… ecc.). Protagonista, nel 2020, del documentario La febbre di Gennaro. Attualmente collabora con la FAO. In questi giorni è in missione ad Haiti.

Angela Iantosca

Iantosca, giornalista e scrittrice, ha collaborato con diverse testate cartacee e con rubriche televisive. Direttrice artistica del Festival InDipendenze, collabora al progetto WeFree della comunità di San Patrignano. È autrice di vari saggi inchiesta sul tema della ’ndrangheta e della droga. Con Paoline ha pubblicato: In trincea per amore. Storie di famiglie nell’inferno delle droghe (2020), La scimmia sulla culla. Bambini in crisi di astinenza (2021) e Ventuno. Le donne che fecero la Costituzione (2024, con Romano Cappelletto). Nel 2023 ha debuttato con il suo primo monologo teatrale La ventiduesima donna.

La postfazione del libro è firmata da Luisa Morgantini, voce storica del pacifismo italiano. Parte dei proventi del libro sarà devoluta ai progetti di Operazione Colomba in zone di conflitto.

Giudetti è partito con la Fao per la Striscia di Gaza a giugno 2024 ed è tornato il 4 agosto. Su quest’ultima missione ha scritto un nuovo capitolo del libro, aggiunto per la seconda edizione del libro. Ilfattoquotidiano.it ne pubblica qui un estratto.

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È certosina e spietata. Ritmica e incalzante. Scientifica e ingorda. Sadica e beffarda.

Cammina indifferente abbracciata al potere, ai soldi, agli affari, agli interessi, alla corruzione. Si ingentilisce a volte adornandosi con la parola pace, mentre nasconde la pistola sotto abiti eleganti e istituzionali. Il suo nome è guerra, e mentre uccide si auto-assolve proclamandosi giusta e santa.

Ma cosa c’è di giusto in questo bambino colpito da un cecchino? In questi palazzi? Nel vuoto delle macerie? Nei continui bombardamenti? Nei droni che volano bassi sulla testa della gente? In questo ronzio che non cessa, nelle onde d’urto che spaccano i vetri?

Cosa c’è di santo nel suono delle ambulanze che arrivano dopo ogni attacco? Negli aerei, i carri armati, i colpi dal mare e dalla terra? Nelle tende sulla spiaggia, nei quadratini verdi e rossi che dividono questa terra in una scacchiera che non ha vincitori, ma solo vinti?

E in queste strade che non esistono più, in queste carovane di persone che fuggono senza sapere dove trovare riparo? Cosa c’è di umano in questi cadaveri gettati nelle fosse comuni, senza un nome, senza un saluto, senza un fiore e senza neanche un sacco nero per coprirli, perché sono finiti anche quelli?

Cosa c’è di giusto in questa altalena tra le macerie che fa sorridere una bambina che ha perso tutto: madre, padre, nonni, fratelli, sorelle?

Cosa c’è di santo in queste intere famiglie spazzate via per sempre da una bomba caduta sul palazzo in cui abitavano tutte insieme e di cui nessuno avrà più memoria?

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E nella fame? In queste scodelle che i bambini usano per coprirsi dal sole mentre sono in fila per un un pasto sporco, insabbiato, annacquato?

E in questo bambino che non ha più amici e gioca da solo con una pietra?

Cosa c’è di santo in questi nomi che i più piccoli si fanno scrivere sulle braccia sperando che qualcuno li aiuti a ritrovare chi hanno perso per sempre? Cosa c’è di giusto in questo mare che ti uccide se ti ci butti dentro, perché qualcuno è lì che ti aspetta pronto a spararti? E nella morte che raggiunge chi si ferma ad aiutare un essere umano, perché un soldato israeliano sta attendendo
solo quel momento?

Cosa c’è di giusto nelle carrozzine spinte da bambini e che portano altri bambini senza una gamba? E in questo piccolo di pochi anni che prova a racimolare qualche soldo vendendo fette di anguria?

Cosa c’è di umano in questa signora su una sedia a rotelle che tiene stretto a sé un pacco di pannoloni, il suo tesoro prezioso che non può permettersi di perdere? E in Ahmad, mio collega di lavoro, che in una settimana ha perso tutto: il padre per una malattia banale, un fratello perché voleva salvare una bambina agonizzante, un altro perché esploso su una bomba e anche i gattini, a cui era legatissimo, sepolti dalla sua casa che è stata distrutta? E ora è qui con me in questa abitazione provvisoria che tra qualche tempo non ci sarà più.

Che fine ha fatto la dignità? L’agape? L’amore per il prossimo? Quelle parole che qui sono risuonate per la prima volta millenni fa e che si infrangono su ciò che resta di questa terra e di questo popolo? Dove è finita la pietà per i morti?

Cosa c’è di santo in questi aiuti che stiamo portando? In questo cibo per animali che proviamo a distribuire e a far sopravvivere alle bombe e che è polvere in mezzo a questo sterminio? Genocidio: è questa l’unica parola possibile per raccontare ciò che accade a Gaza. Perché è ciò che ho visto nei mesi di giugno e luglio quando sono stato lì per conto della Fao.

Gaza sta morendo.
Muore perché un medicinale manca.
Muore perché è bombardata dal cielo.
Muore perché sparano dalla terra.
Muore perché la colpiscono dal mare.
Muore bersagliata dai cecchini.
Muore di fame. Muore di sete. Di malattie e stenti.
Muore con i soldi che l’Occidente ha dato per quelle bombe e quelle armi.
Muore per una colpa che non sa di avere e che le viene ricordata tutti i giorni da millenni.
Muoiono i suoi abitanti. Ma mentre muoiono resistono. Lo fanno da decenni.

Resistono e si ingegnano. Non cedono. Trovano modi per sopravvivere. Trascinarsi ancora un po’. Fino alla prossima bomba. Al prossimo allarme. Al prossimo drone che improvvisamente cambia sibilo e si schianta al suolo. Fino al prossimo proiettile. Alla prossima malattia che non si può curare perché lì non fanno arrivare neanche i medicinali da banco. Lì dove non permettono ai giornalisti di entrare e di raccontare davvero quell’abominio, lì dove anche gli umanitari vengono scoraggiati a entrare, lì dove anche chi lavora per le Nazioni Unite viene attaccato e colpito. Non sono mai morti tanti operatori umanitari in una guerra. E anche io ho avuto paura.

Ne parlo al passato, quando racconto quel mese. Me ne sono reso conto in questi giorni: uso un tempo che mi aiuta, nella narrazione, ad allontanare quei suoni, quelle notti insonni, quel sudore nel letto, quel continuo stato di tensione, di agitazione, di ansia, di precarietà. E quelle ferite e quegli esseri umani disumanizzati da una guerra che vuole colpire i terroristi, ma piega la gente. La umilia privandola di tutto: anche degli assorbenti, che costano decine di euro al pacco. E dei deodoranti. E dell’acqua. E di una casa. Di un letto. Delle strade. Del mare che non si può toccare. Di un luogo in cui stare entro quel fazzoletto di terra lungo quarantuno chilometri e largo dodici.

Si vive di attese, a Gaza: attesa di cibo che non arriva, attesa che il sibilo del drone diventi una esplosione, attesa di una notizia, attesa del silenzio e che quel silenzio finisca. Attesa della morte. Perché a Gaza chi sino a ora è sopravvissuto è questo che sta attendendo: il quando, non il se.



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