Le vicende che hanno investito recentemente il critico Vittorio Sgarbi, relative ad un fatto risalente al 2021, hanno a tutti gli effetti i contorni di un giallo. L’allora sottosegretario della cultura – in seno ad una mostra da lui curata e dedicata a Pietro Paolini e ai pittori caravaggeschi – espose al Palazzo della Cavallerizza di Lucca, un dipinto inedito del pittore seicentesco Rutilio Manetti raffigurante La Cattura di San Pietro; l’opera, ufficialmente registrata proprio come appartenente alla Fondazione Cavallini Sgarbi, presentava una forte similitudine con un omonimo dipinto trafugato nel 2013 al Castello di Buriasco e di proprietà di Margherita Buzio; la stessa che nel febbraio 2013 ne denunciò ai carabinieri di Vigone il furto. Seppur differente dall’originale, per la presenza di una fiaccola in alto a sinistra, le indagini più recenti da parte della procura di Macerata – ancora in corso – hanno sollevato alcuni sospetti sull’autenticità dell’opera esposta a Lucca, evidenziando come l’intervento di restauro e l’aggiunta di alcuni elementi decorativi fossero, in verità, dei vani tentativi di mascheramento aggiunti con pigmenti di derivazione industriale.
Il caso del Manetti ha portato ad interrogarsi nuovamente sul complesso legame tra autenticità e falsificazione, richiamando alla memoria secoli di emulazioni di oggetti di qualsiasi natura e forgia, pratica che da sempre, quasi come un’ombra, ha accompagnato la produzione artistica originale. Un concetto, quello del “falso”, che sin dall’antichità è stato fortemente legato a quello di “copia” ma che inizialmente si distinse per i suoi fini nobili; i duplicati realizzati infatti non avevano scopi fraudolenti ma finalità didattiche o divulgative, utili a formare gli allievi delle accademie o diffondere modelli artistici, allora contemporanei, su vasta scala. Erano le cosiddette “copie autorizzate”, quelle realizzate durante l’Impero Romano, che usavano replicare le sculture ellenistiche per omaggiarne la fattura, le perfette proporzioni ed enfatizzare i modelli di un passato esteticamente glorioso. Un atto di glorificazione che nel Medioevo si estese ben oltre l’arte visiva e formativa, inglobando anche reliquie, documenti e cronache. Un esempio tra tutti la testa di San Giovanni Battista (ad oggi almeno ben 4 rivendicate come originali in tutto il mondo) reliquia di un santo che, per via sua particolare vicinanza a Gesù, avrebbe conferito prestigio al luogo che l’avesse conservata e mostrata; un tipo di falso differente, che rispondeva sicuramente a scopi devozionali e di legittimazione religiosa, ma che, in effetti, aveva già nei suoi intenti più subdoli – vista l’impossibilità di determinarne l’autenticità – quello di essere un gancio perfetto per attrarre i fedeli.
Per vedere l’arte della falsificazione ai suoi massimi livelli di maestria esecutiva si dovrà aspettare però il Rinascimento, dove in vere e proprie gare di abilità ci si contendeva, di fatto, il primato. Un periodo in cui sono stati registrati noti raggiri passati alle cronache, come quello al filantropo e cardinale romano Raffaele Riario da parte di un mercante che, all’insaputa dell’artista e dopo averne artificiosamente invecchiato la patina, spacciò la statua di un nuovo cupido dormiente come reperto archeologico. Scoperto il raggiro, il religioso chiese il rimborso al mercante e individuò lo scultore sconosciuto autore di quella scultura; era un giovane ventenne dal nome di Michelangelo Buonarotti che, grazie a quest’evento nonché al raffinato intuito del mecenate che riconobbe una qualità fuori dalla media, venne così introdotto nell’ambiente artistico “bene” romano.
Fu proprio per via dell’espansione del collezionismo su larga scala e della conseguente espansione del mercato dell’arte nei due secoli successivi (basti ricordare le decine di Cabinet de Curiosités che sbocciavano in tutta Europa) che, nel Seicento, i falsi si moltiplicarono a dismisura: i mercanti semplicemente incaricavano artisti di bottega a riprodurre delle copie da spacciare per originali, così da poter rispondere a una domanda sempre più crescente.
Nel Settecento, il fascino per gli oggetti antichi, la conservazione e il loro restauro, che comportava modifiche significative, avviò una pratica di fusione tra elementi autentici e nuove aggiunte, anche per rendere le opere più confacenti ai gusti e alle mode dell’epoca; nasce un amore verso la contaminazione che avrà numerose declinazioni – in altro campo si ricordino ad esempio i capricci costruttivi di Giovanni Battista Piranesi, ma anche la nascita del Neoclassicismo sia nella scultura che nell’architettura – un panorama che talvolta aggiungeva livelli di complessità alla tematica della genesi e della conseguente autenticità dei manufatti. Uno spaccato importante di cultura occidentale materiale che precede Il periodo del Risorgimento, famoso per la riscoperta e l’esaltazione del passato artistico nazionale in cui falsari come Icilio Federico Ioni o ancora Alceo Dossena (abile scultore in grado di ricreare lo stile dell’antichità classica e del Rinascimento) ottennero grande successo anche dopo essere stati smascherati.
Si dovette aspettare il Novecento per scoprire alcune nuove tecnologie in grado di scovare anche una riproduzione perfetta dal vero. Nonostante ciò fu emblematico il caso di Han van Meegeren: questo pittore olandese durante la Seconda Guerra Mondiale divenne celebre per le sue falsificazioni di Vermeer, talmente ben eseguite, da ingannare critici di fama mondiale come il generale nazista Hermann Göring, che ne acquistò persino uno il “Cristo e l’adultera”. Dopo la guerra, Han van Meegeren, accusato di collaborazionismo per aver venduto presunte opere d’arte inestimabili ai nazisti, si difese sostenendo che il quadro era una sua falsificazione e per provarlo, dipinse un Gesù nel tempio direttamente nell’aula del tribunale, lasciando stupefatti gli esperti e dimostrando la sua innocenza rispetto alle accuse di tradimento.
Con la messa a punto di molte tecniche di analisi contemporanee, grazie ad una conoscenza quasi perfetta dei materiali nonché di una sempre maggiore competenza nel campo della grafologia, l’arte falsificata è generalmente condannata ad una fine certa, benché alcuni falsi, ancora oggi, continuano a fare notizia e a suscitare un certo fascino per l’abilità tecnica dei loro creatori.
Per Elledecor abbiamo intervistato Valentina Vico, una delle maggiori esperte di antico e Direttore della Galleria Benappi Fine Art a Londra
L’allora direttore del Metropolitan Museum, nel 1997 dichiarò provocatoriamente che circa il 40% dei dipinti esposti nel museo erano dei falsi. Cosa c’è di vero in questa affermazione e come si procede al riconoscimento di un’opera d’arte falsificata?
Lavoro da molto tempo nel mercato, frequento e conosco bene il Metropolitan, ma non conosco l’entità dei suoi depositi e non ho contezza di quante opere riconosciute nel tempo come falsi vi siano conservate. Ma mi sembrano numeri altissimi! Certo è che nel secolo scorso i parametri attribuzionistici e le maglie del mercato erano sicuramente piu larghe e può essere capitato a tutti i musei di comprare, o più semplicemente di ricevere in lascito da qualche collezionista, opere non buone.
Con il tempo quelle maglie si sono drasticamente ristrette. Come si fa a riconoscere un falso? Ci si avvale delle tecnologie e dei restauratori più accorti, ma soprattutto si consultano i conoscitori più capaci e seri per ogni specifico ambito: l’occhio dell’esperto, del vero studioso, resta lo strumento principale e insostituibile per orientarsi. C’è sempre un segnale, un dettaglio sbagliato che un grande intenditore intercetta.
Un restauro può cambiare fino a dissimulare l’originalità di un’opera d’arte?
Certo, un restauro può spingersi molto in là, fino a cambiare i connotati di un’opera. E’ successo molte volte, in passato, che dei restauratori-pittori abbiamo manipolato un’opera antica, solitamente per nasconderne il cattivo stato conservativo e farla tornare ad apparire integra. Sono interventi non ovvi da intercettare, ma un mercante esperto o un bravo studioso lo capisce (quasi) alla prima occhiata.
Come si tutela il mercato riguardo la presenza di possibili falsi e può accadere che istituzioni blasonate possono esporre opere non originali?
Nel mondo degli old masters, in cui lavoro, i falsi sono quasi completamente spariti, nel senso che quando riappaiono vengono immediatamente identificati e raccontati come tali.
I mercanti seri collaborano con esperti internazionali seri: storici dell’arte, curatori museali, studiosi, restauratori, tecnici. Le competenze in gioco sono altissime e quando si compenetrano sbagliare è assai difficile: il falso viene individuato e isolato. Per l’arte del 900 il problema è molto più intricato, la materia delle opere del XX secolo non parla come invece fa quella dei dipinti e delle sculture antiche: per le opere antiche non credo si possa dire che ci siano molti falsi, ne’ sul mercato, ne’ nei musei. O meglio, ci sono ma vengono quasi sempre individuati e trattati come tali.
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