Negli ultimi anni la principale carta che l’Italia si è giocata per evitare accuse di free riding non è stata l’aumento del bilancio della difesa, ma l’incremento del suo contributo alle missioni internazionali a guida NATO e USA. Nelle attuali condizioni però, un ulteriore aumento non sembra possibile. Se Trump chiederà un ulteriore contributo, Roma potrebbe trovarsi costretta ad aumentare il budget della difesa.
L’elezione di Donald Trump si tradurrà effettivamente in un aumento dei costi della membership dell’Alleanza Atlantica? È questo uno degli interrogativi che turba i sonni di numerosi governi europei dopo il risultato delle elezioni del 5 novembre.
Se dovesse tenere fede a quanto promesso in campagna elettorale, infatti, il nuovo presidente americano potrebbe non limitarsi ad essere più assertivo nella richiesta agli alleati di tener fede all’impegno assunto nel 2014 in Galles – allocare almeno il 2% del loro PIL in difesa – per tentare di alzare l’asticella – è stato ipotizzato intorno al 3%. L’aggiustamento della soglia da superare per essere considerati virtuosi, d’altronde, troverebbe il sostegno degli alleati che già lo fanno o che hanno comunque in programma di farlo.
Di conseguenza, è prevedibile che il suo monito “you gotta pay your bills” sarà rivolto, anzitutto, a quegli otto Paesi membri che ancora oggi non soddisfano il NATO Defence Investment Pledge. La spesa dell’Italia, che figura ancora nel gruppo degli “insolventi”, ammonta all’1.49% del PIL per il 2024, secondo i dati forniti dalla NATO e dal DPP 2024-2026.
La risposta di Roma al pressing di Washington
In passato, tuttavia, Roma è sempre riuscita a gestire il pressing di Washington sul cost sharing senza mai divenire l’obiettivo preferenziale delle sue rimostranze. Dopo il Summit 2014, infatti, si trovava lontana dall’obiettivo, riservando alla spesa per la difesa non più del 1.14% del suo PIL. Invece di optare per un’impennata del budget, la soluzione allora individuata fu quella di aumentare il contributo alle operazioni NATO e a quelle a guida americana. Tra il 2014 e il 2017, a fronte di un budget che si aggirava intorno all’1.2%, l’Italia passò così da un dispiegamento di forze all’estero di 4.440 effettivi a uno di 7.500 effettivi (in particolare, crebbero i contingenti assegnati alle operazioni Inherent Resolve, Baltic Air Policing, Enhanced Forward Presence).
Non appena il tema delle contributions divenne parte integrante della promessa di burden sharing tra gli alleati al vertice NATO 2016 di Varsavia, la grande disponibilità dimostrata da Roma nel fare risk sharing agì da “scudo” verso le aspre critiche cui altrimenti rischiava di andare incontro. Al punto che, in una famosa intervista rilasciata nell’ultimo dei suoi otto anni di presidenza, Barack Obama accusò esplicitamente Parigi e Berlino, ma non Roma, di comportarsi come dei free-rider della sicurezza nell’area euro-atlantica.
Il primo mandato di Trump rilanciò l’urgenza per Palazzo Chigi di attenzionare il dossier della spesa per la difesa. Questa volta, complici anche condizioni economiche più favorevoli e – a partire dal 2019 – la spinta impressa dal nuovo ministro Lorenzo Guerini, l’Italia si trovò nelle condizioni di agire direttamente sulla spesa. Alla fine del 2020, infatti, non solo il suo budget aveva raggiunto quota 1.59% del PIL, ma si era anche proceduto a un’ulteriore espansione del suo contributo alle operazioni NATO, arrivando a schierare all’estero circa 9.500 uomini (un aumento di circa 2.000 unità). Nonostante alcune fonti riportino che Roma sia stata tra i destinatari di una lettera di richiamo riservata dell’Amministrazione Trump ai Paesi “insolventi”, anche questa volta si salvò dalle critiche pubbliche. Critiche che, invece, il presidente americano non lesinò alla Germania di Angela Merkel, accusata di minare con la sua spesa militare largamente sotto il 2% “la sicurezza dell’Alleanza Atlantica” e fornire un esempio negativo agli alleati che “non avevano intenzione di rispettare i loro impegni”.
Di fronte alla terza richiesta di incremento del contributo, presentata dal presidente Joe Biden a partire dal 2021 e rafforzata dallo shock costituito dall’aggressione russa all’Ucraina, la risposta italiana è stata simile a quella del 2014. Invece di aumentare effettivamente la spesa per la difesa, rimasta sostanzialmente invariata al netto dell’inflazione, l’Italia ha incrementato ancora una volta il suo contributo alle operazioni alleate specialmente sul fianco est, raggiungendo quota 12.000 effettivi autorizzati allo schieramento all’estero nel 2024 e attestandosi saldamente quale secondo contributore delle operazioni NATO e a guida americana. La combinazione tra questa scelta, il varo del Piano Mattei e l’aumento della presenza italiana nell’Indo-Pacifico ha, almeno parzialmente, soddisfatto le aspettative della Casa Bianca nei confronti del governo Meloni, con cui – a dispetto del differente colore politico – ha raggiunto un – quasi inedito – allineamento su tutti i principali dossier dell’agenda internazionale.
Il rilancio sul cost sharing di Trump e i vincoli per l’Italia
Un rilancio da parte americana sul tema della spesa militare degli alleati nel 2025 è verosimile non solo per quanto dichiarato da Trump negli ultimi mesi, ma anche perché costituisce uno dei pochi elementi di continuità tra il prossimo 47° presidente degli Stati Uniti e i suoi predecessori del Partito Democratico. Nella sostanza, infatti, troverebbero una sottoscrizione trasversale ai due grandi partiti americani le parole del futuro vice-presidente JD Vance, secondo cui la NATO non può essere ridotta a “un cliente di welfare”, ma “dovrebbe essere una alleanza reale”.
Il concretizzarsi di questo scenario, pertanto, metterà nuovamente l’Italia alle strette. Nelle condizioni attuali, infatti, la principale carta che Roma si è giocata negli ultimi dieci anni – l’aumento significativo del suo dispiegamento militare – difficilmente potrà essere gettata ancora una volta sul tavolo. Con le risorse di cui dispongono oggi le Forze Armate, sia in termini di uomini che di mezzi e materiali, un ulteriore allargamento dei numeri – già elevati – dei nostri contingenti schierati al di fuori dei confini nazionali sarebbe difficilmente sostenibile.
Come giustamente ha fatto notare a marzo 2024 l’allora Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone in Parlamento e come ha ulteriormente ribadito di recente il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Carmine Masiello, con le risorse attualmente disponibili le Forze armate riescono a malapena a sostenere l’attuale ritmo delle operazioni. Non solo perché i militari italiani sono pochi rispetto ai compiti che sono chiamati ad assolvere, dovendo far fronte sia a impegni internazionali che domestici (come l’Operazione Strade Sicure, che secondo la legge di bilancio 2025 verrà prorogata per altri 3 anni con circa 6.800 effettivi). Ma anche perché il personale delle Forze Armate ha un’età media sempre più alta e, quindi, il suo impiego risulta più difficile per ragioni di salute e famigliari.
Cosa può fare Roma? Due opzioni e altrettante criticità
Roma, quindi, si trova davanti a due opzioni. La prima è sperare che gli Stati Uniti di Trump si attestino su posizioni meno dure in tema di cost sharing rispetto a quelle espresse dal 47° presidente durante la campagna elettorale. O che, quanto meno, facciano ancora una volta un’eccezione per l’Italia, grazie a quella congiunzione astrale favorevole che si sta delineando nelle relazioni italo-americane. Oggi, infatti, Casa Bianca e Palazzo Chigi procedono verso un allineamento anche in tema di preferenze politiche interne, un aumento del dialogo per via della stabilità che rende oggi il governo italiano un interlocutore privilegiato rispetto a quelli delle altre potenze europee e, infine, un’ulteriore avvicinamento grazie al rapporto stabilito tra Giorgia Meloni ed Elon Musk (che, si suppone, dovrebbe essere uno degli elementi più influenti della futura Amministrazione Trump). Legare una scelta strategica ai – per natura volatili – rapporti personali, tuttavia, rischia di essere un vero e proprio azzardo, che deve essere quanto meno compensato dalla capacità di dare qualcosa di sostanzioso in cambio a un presidente ormai noto per il suo approccio transazionale alle questioni politiche.
La seconda opzione è quella di un effettivo aumento delle spese militari. Roma, infatti, potrebbe decidere di perseguire concretamente l’obiettivo del 2% posto dalla NATO, rispetto al quale – va sottolineato – il ministro Guido Crosetto si è mostrato particolarmente sensibile. Tale scelta consentirebbe all’Italia di evitare le critiche del suo alleato maggiore, ma con ogni probabilità rischierebbe di sollevarne di numerose al suo interno: come mostrano numerosi sondaggi, infatti, la maggior parte degli italiani è contraria a un incremento della spesa per la difesa. Ed essendo ormai prossima la seconda metà della legislatura, probabilmente non è il tempo giusto per il governo di compiere scelte impopolari.
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