Minorenni, molti stranieri, la maggioranza è in custodia cautelare per reati contro il patrimonio. C’è chi finisce in carcere maggiorenne per reati commessi anni prima. Altri arrivano dalle comunità. Sono ostili alle istituzioni perché ne subiscono l’ostilità.
Se l’obiettivo della giustizia minorile è l’inclusione sociale degli adolescenti che hanno commesso un reato, possiamo dire che la loro detenzione è un fallimento. La buona notizia è che esiste la soluzione. Prima, però, un breve affresco di chi è detenuto e di cosa lo aspetta dentro le mura, senza considerare i casi estremi che trovate sulle prime pagine. Qui parliamo degli invisibili, la quasi totalità. Metà sono minorenni, metà sono stranieri. La maggioranza è in custodia cautelare, generalmente per reati contro il patrimonio. Una discreta percentuale arriva dalla condizione di libertà, maggiorenne, per reati commessi anni prima. Altri arrivano dalle comunità perché si sono agitati troppo. Esprimono alcuni tratti ribelli dell’adolescenza, ma portati all’estremo: sono ostili alle istituzioni perché ne subiscono l’ostilità. Credono di non valere nulla, perché questo vien detto loro; hanno un’identità frammentata, una famiglia quasi sempre assente, scarsi o nulli legami sociali; non hanno niente da perdere perché niente hanno; molti sono arrivati minorenni in Italia, sradicati dalla famiglia. Compiono reati di sopravvivenza senza alcuna visione del futuro. Si sentono esclusi, soli, disperati. E come risposta li rinchiudiamo in una cella dove aumentano l’esclusione, la solitudine, la disperazione.
In carcere il percorso educativo è assegnato al direttore, la sicurezza è appannaggio del comandante della polizia penitenziaria. Ma sono due funzioni disarticolate, come se fosse possibile realizzare l’una indipendentemente dall’altra, senza quella orchestrazione che in passato aveva reso il «Beccaria» di Milano un modello da imitare.
Per quanto riguarda la sicurezza, assistiamo da tempo a rivolte e azioni repressive che si alimentano a vicenda: alle agitazioni dei ragazzi corrispondono interventi repressivi e violenti, ai quali i ragazzi rispondono con ulteriori agitazioni. Parallelamente, per effetto del decreto «Caivano», l’aumento dei reati punibili con la carcerazione preventiva ha generato il sovraffollamento, parzialmente risolto (in peggio) con il trasferimento dei neodiciottenni nelle carceri per adulti. A completare il quadro, il suddetto decreto impone l’obbligo di denuncia per ogni gesto di disobbedienza, parolacce comprese. Ricordo che parliamo di adolescenti arrabbiati.
Non va meglio dal punto di vista educativo. Se il nodo principale è aiutarli a costruire un’identità, a generare fiducia nelle istituzioni, a intrecciare legami sociali, a confrontarsi con adulti e coetanei di cui fidarsi e dai quali prendere ispirazione, allora l’ambiente chiuso del carcere non può essere lo spazio adeguato, perché esclude alla loro vista proprio ciò di cui hanno più bisogno. Il mondo rimane fuori, ostile o indifferente. L’errore principale è credere che la sicurezza (per i ragazzi reclusi e per noi cittadini) possa produrre l’educazione. La sicurezza è invece l’effetto dell’educazione, non la sua causa. Per quanto li si possa abbellire, gli Ipm rimangono dei luoghi di reclusione per propria natura violenti, incompatibili con la cura educativa che il mondo adulto dovrebbe garantire a questi adolescenti smarriti.
E ora, finalmente, la soluzione. Che esiste già. Il percorso dell’80% dei ragazzi «messi alla prova», seguiti cioè dai servizi sociali senza passare dalla prigione, ha esito positivo: il reato viene estinto e possono ricominciare il percorso di vita. Esiste il collocamento in comunità, dove i ragazzi possono essere accolti in un ambiente più simile a una famiglia, a patto che la comunità si limiti a un numero accettabile di ospiti, direi una decina. Se proprio devono entrare in carcere perché non c’è posto né in famiglia né in comunità, esiste la possibilità di applicare l’articolo 21 per motivi educativi e formativi: significa farli uscire dal carcere la mattina per farvi ritorno alla sera, così possono intraprendere un processo di socializzazione, possono incontrare adulti di riferimento di cui fidarsi, possono vedere nuove traiettorie di vita. Già ora, quando li lasciano venire nei corsi di formazione di «Credito al Futuro» – non l’unico progetto in città – li vediamo cominciare a respirare aria nuova rispetto alla propria storia di vita. E non dicono più parolacce.
Non c’è bisogno che la società civile entri in carcere, è meglio che siano questi ragazzi a entrare nella società civile. Siamo tutti chiamati a prendercene cura, ma fateli uscire, insomma. O ancora meglio, non fateli entrare.
*Direttore generale Fondazione Don Gino Rigoldi
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